sabato 6 novembre 2010

metti una sera in cineteca

Hai presente quelle cineteche comunali, capienza massima 50 persone, dove quando inizia la pellicola parte anche un tron tron di contorno come se il proiettore fosse a due cm dal tuo collo?
Quelle cineteche che ogni tanto tirano fuori una rassegna per intenditori con film sconosciuti ai più, di registi sconosciuti ai più, film che dovrebbero piacere a gente di cultura, gente che sa apprezzare i particolari, a cui non importa niente del lieto fine ma che tanto ama spender chiacchiere sulle inquadrature, la fotografia, l'espressività dell'occhio destro del protagonista e le arricciature del naso della comparsa in primo piano.
Si, quei vecchi cinema - vecchi per modo di dire - con salette senza fronzoli, dalle pareti giallognole (o grigie, mica son proprio tutti uguali) dove magari spicca il manifesto di un film così vecchio che ti sembra di ricordarlo come provenisse da un sogno; è un manifesto di quando ancora i manifesti li affidavano alle mani degli illustratori e con un'immagine, un titolo e un carattere tipografico sapevano raccontarti intere storie.

Ecco, se anche tu hai messo piede in una di queste cineteche o l'hai immaginata per benino, io proseguirei con l'ammettere che in realtà la descrizione della stanza non è poi così fondamentale. Perdonami e trova la pazienza di proseguire.

Succede che una sera, proprio in una di queste rassegne, proiettano un film d'animazione e mi ritrovo a vederlo quasi per caso.
Capiamoci: mi piace l'animazione e vado spesso in cineteca, ma di solito ci vado nel mezzo della settimana, al di là del film in programma; una sorta di appuntamento fisso che serve a farmi apprezzare il mercoledì.
Adesso però succede che mi ritrovo in cineteca il venerdì sera, non chiedermi il perché, e mi ci ritrovo da sola. Da sola, certo. Non mi serve nessuna compagnia per guardare un film.


Eccomi dunque nella saletta giallognola che è piena di persone adulte; posso scorgere alcuni anziani, coppie, single, amici maschi in fila per tre e amiche femmine in fila per quattro, ma soprattutto spiccano loro, i signori distinti che vanno in cineteca, quelli di mezza età (che forse in realtà si tratta di età avanzata ma lo sai anche tu che questi signori hanno l'obbligo di curarsi e ingraziosirsi perché la cultura deve essere fine e raffinata).
In mezzo ci sono anche quattro bimbe. Si, ho scritto quattro e intendo esattamente quattro.
Quattro bimbe che le conti sulle dita di una mano e vedi che ti avanza un dito per la bambina che non è potuta essere qui (la solita vecchia storia del terremoto, dell'inondazione e dell'invasione di cavallette).
Quattro bimbe sedute ognuna con la sua mamma o con il suo papà, in file diverse e in zone diverse della sala.

Adesso occorre che ti metti nei miei panni e che ti immagini per bene di ritrovarti lì, in quarta fila, sulla sinistra dello schermo - per colpa del caso, del destino o per abitudine - sei lì e ti guardi anche tu novanta minuti di immagini e musiche, di colori pastello e scenari delicati. E' una storia che profuma di Francia e poi di Scozia, di Edimburgo ma anche un po' di casa.
Un film che parla della magia e di un mago - un illusionista a esser precisi - e della bambina che crede alla magia ma ci crede davvero, come si trattasse di una manna che risolve i problemi. Ci crede così tanto che segue il mago e va a vivere con lui quasi fosse sua figlia.
Poi scopre che la vita non è fatta solo di conigli che scompaiono e bicchieri di vino che si riempiono dal nulla, nella vita ci sono anche altre magie; ad esempio c'è la magia dove indossando le scarpine belle diventi più bella anche tu, o dove basta camminare facendo svolazzare il vestitino carino che ti ritrovi un po' più donna, una specie di fatina, un elfetta, una folletta, perché con quel vestitino addosso ti senti un po' magica, chissà perché succede ma succede.

Intanto gli affari del mago vanno male, entrano ed escono nuovi personaggi - alcuni contano qualcosa altri sono solo comparsate, come nella vita del resto - la bambina è sempre più una donnetta ma alla magia ci crede ancora, il mago non vuole deluderla, i brodi caldi salvano vite umane, i conigli mordono e tu stai guardando un film che profuma di poesia in ogni inquadratura.
Il ritmo è lento, i dialoghi quasi inesistenti, ma non ti annoi, anzi, ti sembra quasi di appartenere alla storia.

Arriva il finale, che non è lieto ma nemmeno drammatico, arriva il finale e ti resta dentro un emozione, di quelle difficili da descrivere tant'è che proprio non ci riesci, la senti che vorrebbe sbucar fuori da qualche parte ma non può; assieme a lei non c'è commozione, non c'è tristezza, non c'è allegria. E' solo un'emozione spoglia ma piena, colma, che resta lì a traballare come l'ultimo petalo o l'ultima foglia, scegli un po' tu.

Due manine si uniscono e parte un clap clap clap delicato, a basso volume, sembra quasi di sognarlo.
Ti guardi intorno ed è lei, quella scricciolina bionda seduta davanti a te, sulle braccia della mamma, che applaude.
Sporgi il capo, la osservi meglio nel buio della sala, è lì che batte le mani e clao clap clap; senza timidezza e senza esaltazione, è solo un applauso piccolo, nato da mani piccole, dal suono piccolo.
Poi eccole, si aggiungono le altre manine e adesso le quattro bimbe sono tutte lì che battono i palmi in modo scoordinato e accompagnano le musiche finali, ognuna seguendo un ritmo tutto suo mentre noi altri iniziamo a scambiarci mezzi sorrisi d'intesa, come a dire "che carini i bambini, che teneri, ma chissà se ci hanno capito qualcosa".

No, aspetti signora, aspetti signore, non fraintendetemi, il mio sorriso non dice questo.

Perché vede signora, vede signore, io di solito gli applausi al cinema li trovo odiosi, inutili, faziosi, una sorta di sublimazione dello status sociale, sia quando scrosciano dopo i film truzzoni, sia quando sfociano a chiusura dei film culturali.
I film d'animazione non li ho mai visti applaudire perché i grandi devono trovarci dentro l'arte, la morale, lo scopo educativo, o se si tratta di film più ricercati devono analizzare le musiche, la regia, la colorazione.
Un adulto non applaude mai dopo un film di animazione e l'ho capito adesso; questi film li possono applaudire solo i bambini, con un applauso vero, liberatorio, senza foga, un applauso nato spontaneo, isolato, che poteva essere seguito solo da altri bimbi, quelli che han capito il film nascosto dentro il film, quelli che han sentito battere il cuoricino e han voluto replicarne il tam tam con il suono delle mani che battono una sull'altra.

Il mio sorriso, gentili signori, è un grazie.
Un grazie a quelle manine che hanno dato un suono, un significato, una vita a quell'emozione che stava per morirmi tra le mani. Se mi fossi alzata dalla sedia come al solito - lo so perché è successo altre volte - l'avrei uccisa, stroncata, dimenticata. Avrei raccontato il film agli amici e alle amiche, lo avrei consigliato dicendo "bello, vai a guardarlo anche tu, ha dei gran paesaggi... le musiche... i colori... la regia".
Invece adesso ho costruito un ricordo, ho trovato l'incanto e ho imparato cose.

Tornando verso casa, mentre camminavo con il vento freddo che mi sbatteva negli occhi e mi scompigliava i capelli, sapevo di avere un sorriso ebete in faccia, il sorriso di chi ha appena assistito a qualcosa di inaspettato e di bello ma non lo può raccontare.
Non lo può raccontare? no, credimi.

Questa è una di quelle storie che se viene raccontata la prosciughi, la rendi banale, ne uccidi ogni meraviglia.
Una storia come questa non la puoi dire a nessuno, una storia come questa la puoi solo scrivere, magari su quel vecchio blog che tre giorni fa meditavi di cancellare ma, se fino ad oggi è rimasto in vita, a qualcosa, diamine, può ancora servire.

La magia non esiste, scrive l'illusionista alla fine del film.
Se per un attimo, leggendo, hai sorriso anche tu - credimi ancora una volta - possiamo permetterci di contrariarlo.


[Note: il film si intitola L'Illusionista, regia di Sylvain Chomet]

venerdì 23 ottobre 2009

ho imparato cose

ho imparato che quando smarrisci le parole giuste
è meglio riempire il vuoto con il silenzio
ho imparato che il corpo è un grande comunicatore
e la salute è un fiore da non lasciare a secco
ho imparato che la generosità scalda l'anima e il cuore
di chi dona, più che di chi riceve
ho imparato che lo scorrere del tempo non è nemico
ma un'infinita opportunità
ho imparato che ci sono partenze, passaggi, ritorni
ed ho avuto voglia di tornare.

mercoledì 24 dicembre 2008

un addio, un benvenuto, un arrivederci

Ci avviciniamo alla fine, arriva per tutti, anche per te.

Sei stato un anno difficile e bello, tanto mi hai dato, tanto mi hai tolto.

Spero di averti dato qualcosa di buono anche io: in tal caso, passa tutto al fratello tuo che sta per arrivare, affinché si conservi traccia.
Le cose brutte non cancellarle, ma tienile per te. Io cercherò di porvi rimedio e, semmai ci riesco, poi le passiamo nelle mani dell'altro fratello ancora.

Siete tanti, sembra che non finiate mai.
E ognuno deve aver memoria di quando il precedente ha visto e sentito.

Ma le cose brutte lasciamole indietro, affinché nessuno desideri emularle.
Io, noi, cercheremo di porvi rimedio.
Sbagliandone altre, forse, ma cercheremo di porvi rimedio.




Buon 2009 a tutti voi.

Ci si legge a gennaio.

mercoledì 26 novembre 2008

ultimo saluto

Di storie e favolette ci hai riempito l'infanzia.
I tuoi racconti erano pieni di personaggi surreali, di vicende improbabili, di luoghi visti e vissuti.
Un misto tra fantasia e verità; il tutto sempre accompagnato da sane risate.

Le tasche dei pantaloni erano sempre colme di noci, noccioline, castagne o semi di zucca seccati al sole.
Quando meno ce lo aspettavamo afferravi le nostre mani e con movimenti fulminei ci lasciavi il piccolo regalo da sgranocchiare. Poi ti allontanavi, con gli stessi passi furtivi del bambino che ha compiuto la marachella.

Di storie preferite ne avevo diverse, ma una giace in un posto particolare del mio cuore.
Me la raccontavi soprattutto in estate, quando giocavo con le formiche e le cicale cantavano sotto la calda luce del sole. Forse perché proprio le formiche e le cicale erano tra i protagonisti della storia.

"Quando la grande Regina, Madre delle Formiche invecchiò, divenne così debole da non riuscire nemmeno a mangiare da sola. Era davvero molto stanca: per tutta la vita non aveva fatto altro che lavorare e adesso, nei suoi ultimi istanti di vita, decise di chiamare tutte le altre formiche al suo capezzale, per salutarle e per farsi accudire.
- Figlie mie - chiamò la Regina Madre - figlie... accorrete, i miei ultimi istanti si avvicinano. Datemi qualcosa da mangiare e da bere, state in mia compagnia, avete lavorato molto oggi, fermatevi un istante per me"
Le formiche, dedite alle loro faccende, voltarono la testa verso la Regina e risposero:
- Madre, non possiamo. Dobbiamo sbrigarci a portare dentro tutti i semini, le briciole, i pezzi di cibo che si trovano sotto il sole. Abbiamo ancora molti spazi da riempire qui dentro, non possiamo fermarci, il lavoro ci aspetta.
All'udire queste parole, la Regina Madre si alterò così tanto che urlò: Siate maledette tutte quante voi! Da oggi, lavorerete ogni giorno della vostra vita come schiave, senza mai fermarvi, per accumulare ricchezze su ricchezze. Ma d'inverno, sotto le pioggie, le vostre case si allagheranno e sarete costrette a portare nuovamente fuori dal formicaio tutti i semini e i pezzi di cibo raccolti. E nell'aspettare che i deboli raggi di sole li asciughino, dal cielo scenderanno i passeri affamati per rubarvi tutto il raccolto. Questa è la mia maledizione: che non possiate mai godervi il frutto del vostro lavoro!
Detto questo, la vecchia Madre spirò."

"Anche la grande Madre delle Cicale, molto vecchia e molto stanca, si ritrovò sul letto di morte senza riuscire più a bere ed a mangiare. Per tutta la vita non aveva fatto altro che cantare e adesso faceva fatica persino a chiamare le sue figlie a raccolta:
- Figlie mie - chiamò la grande Madre - figlie.. accorrete. Interrompete per un attimo il vostro canto e venire accanto a me, fatemi compagnia e datemi un pò di cibo e un pò di acqua.
Le cicale, tutte allegre e festanti per il bel sole estivo, voltarono la testa verso la moribonda e risposero:
- Madre, cerca di comprendere, purtroppo non possiamo interrompere il nostro bel canto. Tutta la natura sorride grazie alla nostra allegria, anche gli uomini sono felici di ascoltarci, non possiamo smettere, dobbiamo continuare a cantare.
La vecchia Madre fu piena di sdegno, la rabbia si impadronì di lei e urlò: Siate maledette tutte quante voi! Da oggi, canterete incessantemente senza prender fiato fino a quando morirete dal troppo cantare! Non riuscirete a capire quando è il tempo di fermarvi e scoppierete attaccate a quegli alberi che non avete voluto lasciare per venire da me. Questa è la mia maledizione: che il vostro incessante cantare e cantare e cantare vi porti alla morte!
Detto questo, la vecchia Madre spirò."

"Anche la grande Regina, Madre delle Api, giungeva alla fine dei suoi giorni. Si ritrovò stanca e indebolita, dopo una vita trascorsa a svolazzare di fiore in fiore, immersa tra il profumo delicato o intenso dei petali e delle corolle.
Tutte le Api erano al suo fianco, per accudirla e coccolarla. Alcune le intingevano le labbra con la pappa reale, per addolcire gli ultimi istanti della grande Regina. Le piccole Api, affettuose e commosse, non abbandonavano la vecchia ape per un solo istante. Altre si asciugavano gli occhi con le piccole zampine, e stavano una vicina all'altra, tutte insieme.
- Figlie mie - disse allora la Regina Madre - io vi benedico, tutte quante, per ciò che state facendo in questi miei ultimi istanti di vita. Sia benedetto il vostro lavoro, caro all'uomo. Egli mai vi darà la caccia per uccidervi, ma gli sarete care, di voi non avrà paura perché per lui produrrete il buon miele. Il frutto del vostro lavoro sarà abbondante, così come le benedizioni che da me ricevete.
Detto questo, spirò tra le lacrime delle piccole Api."

E tu caro nonno, negli ultimi giorni della tua vita, sei stato per noi come la Regina delle Api.
Il punto luminoso attorno al quale radunarci. Al tuo capezzale sono accorsi parenti, amici e conoscenti. Tutti han desiderato esserti vicini nei tuoi ultimi mesi.
Perché ci eri caro e perché ti eravamo grati, perché i nostri cuori erano colmi di affetto. Non ti è mancata la pappa reale, nè le nostre lacrime. E siamo certi che tu di hai lasciato con ogni benedizione.

E così la tua storia si è conclusa come forse hai sempre desiderato: non eri solo, noi eravamo con te.

E così resteremo per sempre.

domenica 28 settembre 2008

Lo Specchio della Foresta Nera

Oltre le mura del villaggio, in direzione nord-ovest, sorge una grande foresta di alberi neri.
Te la ritrovi in faccia quasi all'improvviso poiché per giungervi occorre attraversare una lunga serie di collinette e avvallamenti che ne nascondono la vista durante il cammino. Esci dal villaggio e trovi un piccola salita, poi scendi, risali e scendi, passi il fiumiciattolo che nelle stagioni calde non è altro che un minuscolo rigagnolo, attraversi un prato di papaveri, risali e poi quando ti trovi nel punto più alto, appare alla tua vista la vallata con la nera foresta.
I tronchi degli alberi sono scuri e le foglie color del carbone che più non brucia. Nel villaggio raccontano come negli anni passati la foresta fosse verde e rigogliosa; poi arrivò una notte terribile, in cui il cielo si tinse di bagliori rossastri e la brace prese il posto di pietre e fili d'erba. La foresta bruciò come se si trovasse all'interno di una fornace, tutta insieme, unita nel mostruoso falò, senza che il fuoco sfiorasse appena l'ambiente circostante.
Raccontano, i vecchi del villaggio, che all'interno della foresta viveva una vecchia donna, o almeno, pensavano fosse vecchia a causa della voce roca e della schiena curva; tuttavia nessuno ne aveva mai visto il viso, sempre ben nascosto dall'ampio cappuccio del mantello.
Quando la foresta fu divorata dalle fiamme, della vecchia si perse ogni traccia. Nessuno, negli anni a seguire, osò varcare la soglia delimitata dagli alberi bruciati; il loro aspetto irreale incuteva timore.
Nonostante avessero arso per ore intere, si erano rifiutati di dissolversi in cenere. I tronchi restavano ritti, le foglie attaccate ai rami, le radici ben salde nel terreno. Ma erano neri, come l'ombra, come la tenebra, come il carbone spento.
Ma oggi, sotto il cielo terso di un giorno d'estate di rossi papaveri, la piccola Gaia si era spinta sul limitare della foresta, ben intenzionata a violarla. Il nonno le aveva raccontato nuovamente la storia dell'incendio, ripetendo le stesse parole di ogni volta, ma poi si era intromessa nel racconto la nonna, che passava di là con le braccia colme di zucchine; si era fermata, aveva ascoltato pochi istanti e: "questa storia è davvero affascinante ma io trovo ancor più misterioso che nessuno sia mai andato a recuperare lo specchio della vecchia signora!". "Quale specchio?" - aveva chiesto la bimba sgranando gli occhi, entusiasta per la scoperta di un nuovo particolare della sua storia preferita. La nonna sedette accanto a lei e continuò: "Lo specchio che la vecchia nascondeva in casa sua. Il fruttivendolo e il ricottaro, che si recavano spesso nella foresta per venderle le loro mercanzie, raccontarono nel villaggio di come la vecchia tenesse uno specchio, coperto da un telo rosso, all'interno della casa. Una volta, uno dei due, non ricordo bene chi, le aveva anche chiesto cosa nascondesse dietro il telo. Lei rispose che si trattava di uno specchio, ma preferiva tenerlo così, per evitare di osservare la propria immagine riflessa". "E perché dici che era magico nonna?" - "Ah, non lo dico io, ma lo disse l'intero villaggio, per giorni e giorni... Perché una volta uno dei due venditori, anche qui non mi ricordo quale dei due, le chiese di vederlo ma la vecchina, dopo quella richiesta, lo sbatté fuori di casa in malo modo. Poi arrivò l'incendio. Ho sempre pensato che qualche comitiva di comari curiose sarebbe andata a recuperarlo, ma così non è stato" - "Perché si tratta di frottole! - sbraitò il vecchio nonno e così facendo, concluse il racconto della nonna per proseguire con la storia degli alberi che bruciarono diventando neri.

Ormai il danno era fatto.
Mai rivelare ai bambini l'esistenza di cose misteriose e poi chiudere con la parola "frottole" o "stupide fantasie" o "sciocche bugie".
I bambini si sentono in dovere di svelare l'arcano, affinché gli adulti non incorrano in errori di valutazione.
La piccola Gaia si inoltrò nella foresta, per scoprire quale dei due nonni aveva ragione.
L'interno della foresta nera era tetro più di quanto la bimba avesse immaginato.
Nero il sentiero, neri gli alberi, non un verso di animale. Dall'alto riusciva a far breccia qualche raggio di sole che nello scendere in basso si trasformava in una luce tenue e irreale, grigia e polverosa, a volte fluttuante come vapore.
Il cuore della bimba batteva forte, si guardava attorno con sospetto, cercava di porgere attenzione a dove posava i piedi, ma era tutto nero e la poca luce non riusciva a difenderla dagli ostacoli.
Cadde tre volte, e nel cadere sentì la fuliggine avvolgerla. Starnutì. Poi si alzò e si guardò le mani, nere come la pece. Anche le ginocchia erano diventate nere e probabilmente anche il volto; più volte si era toccata in viso per darsi qualche buffetto tranquillizzante.
Tuttavia non tornò indietro, procedette determinata come un soldato in guerra dal cui buon esito della missione dipendono molte vite umane.
Cammina, cammina, eccola distinguere finalmente qualcosa che non sembrava un albero. Un enorme blocco grigio, un pezzo unico, come una parete. La casa della vecchia.
Gaia iniziò a correre per giungervi il più in fretta possibile, il cuore impazzava, scappava come fosse seguita dagli alberi tutti della foresta, come se qualcuno o qualcosa volesse impedirle l'ingresso nella casa.
Corse, corse, corse, sbatté quasi contro la porta non riuscendo a fermarsi del tutto nello slancio, tirò in basso la maniglia, aprì, entrò, chiuse!
Adesso era immobile, con le spalle al muro, mentre tentava di calmarsi. Il respiro era un po affannato, ma lo controllava; il rumore frenetico del battito del cuore le balzò all'orecchio.
L'interno della casa era più luminoso dell'intera foresta. Nel bel mezzo del soffitto c'era un grande buco, probabilmente provocato dall'incendio: il tetto era crollato ed ora entrava un raggio di sole tiepido. Gaia camminò fin sotto il buco, guardò in alto e vide alcuni rami pieni di foglie far capolino sulla strettoia, sopra di loro il cielo ed il sole.
Tranquillizzata dalla presenza della luce, iniziò a guardarsi attorno.
Non ci volle molte: il velo rosso era l'unico colore che spiccava in quella casa grigia e consumata dalla notte.
Si avvicinò alla parete, prima di scostarlo si fermò ad ascoltare il suo stesso respiro per diverse volte.
Poi inghiottì il rospo ed aprì!

Che orrore! urlò e balzò indietro; nel mentre si rese conto di non aver visto altro che se stessa, nera come un legno bruciato.
Con le mani affumicate scostò i capelli dagli occhi e si riavvicinò allo specchio per guardare.
* * *
"Tesoro, cos'è questo?" - chiese il ragazzo voltandosi con un dolce sguardo, uno di quelli che riescon bene solo agli innamorati.
"E' il vecchio specchio di mia nonna... mia mamma dice che deve stare coperto dal telo, perché può essere pericoloso" - rispose la fanciulla senza voltarsi. Stava sistemando una ciocca ribelle che sfuggiva dalla treccia, che fastidio! "Pericoloso? e perché mai?" - "Non lo so.. ma la mamma non sopporta la sua vista. Dice che è maledetto, che la nonna ha infuso in questo specchio tutto il suo dolore" - "Ma di cosa parli? che dolore?" incalzò il ragazzo. "Quello che lei sopportò quando uccisero sua figlia, la sorella maggiore di mia madre. La trovarono nella foresta, straziata... fu aggredita da qualcuno.. non sappiamo chi... venne trovata sanguinante, ferita nel viso e nel corpo. Il medico disse che era stata uccisa lentamente, con molte sofferenze. Mia nonna si ammalò dal dolore e non si riprese più. La mamma ricorda come negli ultimi giorni continuava a guardarsi in questo specchio, cercando nei suoi stessi occhi risposte che non potevano arrivare, consumandosi nella sua immagine riflessa, infondendo tutta la sua sofferenza nel volto che viveva nell'altro lato dello specchio. Mia mamma, dopo la morte della nonna, non è più riuscita ad utilizzarlo. Ci provò, ma dice che lo specchio le provocava sofferenza, come se le facesse percepire del dolore; non il suo, ma quello degli altri, quello che lei aveva provocat.." - "Ahahahah, ma che sciocchezza... dai! Mi spiace per la tua povera zia, davvero una brutta fine, ma poi non puoi raccontarmi una storia simile. Lo specchio magico, ma và! E' ovvio che la povera nonna perse la ragione a causa dal dolore, ma da qui, a sentire il dolore altrui nello specchio.. " - "La mamma dice che la nonna poteva sentire il dolore provato dalla zia, è per questo che non riusciva a smettere di piangere, di star male, di guardarlo, per soffrire come lei, con lei.." - "Amore, ma tu ci credi?" - adesso la guardava incredulo - "credi davvero a queste storie che parlano di maledizioni, oggetti magici, fantasmi o stregonerie varie?" - "non lo so... non lo so se ci credo, ma non mi va di guardare quello specchio! Gli oggetti si portano dietro qualcosa di chi li ha posseduti. Le case odorano dei loro proprietari, un oggetto può anche trasmettere dolor..No! FERMATI!!"
Troppo tardi.
Mentre la fanciulla parlava, il ragazzo si era portato davanti lo specchio e aveva sospinto via il velo.
In un solo attimo il suo viso divenne pallido, gli occhi sbarrati. Dalla bocca spalancata colò via un filo di bava, rimase impietrito, con i muscoli tirati e le mani tremanti. Lui non aveva urlato e non urlò. Fu come uno schianto improvviso.
Uno schianto come quello della sera in cui aveva rubato la macchina di suo padre, a 15 anni, per fare un giro con gli amici. Si stavano divertendo, erano tutti a casa sua perché i "vecchi" cenavano fuori. Avevano giocato a carte, bevuto un po, poi qualcuno aveva tirato fuori l'idea della bravata "prendiamo la macchina di tuo padre e facciamo un giro?".
Il genitore, sempre molto rigido, proprio quel pomeriggio lo aveva punito severamente per l'ennesima sciocchezza. Forse fu una punta di vendetta a spingerlo ad accettare. Solo un piccolo giro nei dintorni, per dimostrare agli amici quanto fosse vero che lui sapeva già guidare, per far un dispetto ai due "vecchi" ignari; l'orgoglio lo reclamava a gran voce.
Il ristorante in cui cenavano era lì vicino, i genitori avevano approfittato della bella serata e della luna piena per far due passi a piedi. Bastava evitare la strada che portava davanti il ristorante. E poi tornare in fretta, prima del loro rientro. Solo un giro veloce.
Il giro in macchina non andò come sperato, però sì, fu veloce. Subito dopo la prima curva, un uomo apparve nella sua traiettoria: frenò, di botto! Una puzza terribile invase l'abitacolo, come di bruciato. Gli amici, fino a pochi istanti ridenti e vivaci, tacevano in preda alla paura. Aveva frenato in tempo, un miracolo, pensò.
Un vecchio uomo si trovava adesso proprio di fronte al muso della macchina: aveva gli occhi sbarrati, era immobile. Il suo volto era illuminato dai fari, il giovane lo riconobbe: si trattava del vecchio pazzo del paese, che di notte amava passeggiare ai bordi delle strade illuminate dalla luna. Quella sera era appena uscito di casa, qualche passo rilassante, poi... il terrore!
Il ragazzo si era fermato in tempo, non lo aveva ucciso! Poi, in preda al panico totale, senza dire una sola parola, inserì la retromarcia, poi la prima, ripartì, spinse sull'acceleratore e fuggì nella notte.
E il vecchio? Lo lasciò lì, tremante, con la bocca spalancata.
Il mattino seguente lo trovarono morto, ai piedi del suo letto.
Infarto - fu il referto del dottore - probabilmente la morte lo aveva colto mentre tentava di giungere al suo giaciglio, forse si era sentito poco bene e aveva desiderato stendersi.
Nessuno seppe nient'altro su quella notte, nessuno vide. Gli amici lo consolarono: era vecchio, sarebbe morto lo stesso, non è stata colpa tua. E poi tacquero.
Chissà se la morte per infarto è dolorosa... chissà se ha sofferto nel tornare a casa sua.. e se ci fossimo fermati? Queste domande, il ragazzo, se l'era poste per anni... di fronte allo specchio magico, aveva trovato infine le risposte.
* * *
Gaia urlò, pianse, si tirò i riccioli inceneriti, strepitò, prese a pugni lo specchio, pianse e pianse.
Tutto il dolore che aveva provocato ad altri bambini con le sue prese in giro, alla mamma con le sue marachelle, ai piccoli animali che torturava, tutto quel dolore, le arrivò nel cuore concentrato in un solo colpo. Non capiva bene cosa stava accadendo, ma all'improvviso le sembrava di ritrovarsi dentro il cuore di sua mamma, all'interno del cuore della rondinella colpita dalla fionda, nel cuore terrorizzato del topo che affogava, nel cuore afflitto della bambina scema della sua classe, quella che i maestri chiamavano autistica e che per lei era solo una rimbambita.
Soffrì e pianse, pianse; si sentì sul punto di morire, sul punto di volersi uccidere per non soffrire ancora così. Era diventata la vittima di tutto il suo stesso male.
Passarono ore. Quando il sole smise di entrare nella stanza, si rialzò; meccanicamente coprì lo specchio, corse alla porta, aprì: era tutto buio, più di prima. Ma la strada che aveva percorso per arrivare alla casa era dritta, o almeno così ricordava, bastava procedere dritto avanti a se e iniziò a correre. Ma non è facile andare dritti quando le radici ti ostacolano, quando gli alberi ti fan deviare e quando ti rendi conto che forse nemmeno all'andata procedevi in linea retta.
Per sua fortuna nel villaggio si erano allarmati, i nonni non la videro tornare, la mamma si preoccupò, il papà prese con se gli amici e i parenti e partì verso la foresta.
Nel villaggio non l'avevano trovata e i nonni si ricordarono che la curiosità della nipotina era forte, così come forte era il mistero ed il fascino della vecchia foresta, di cui voleva sempre sentir parlare.
Gaia vide delle luci in lontananza e iniziò a urlare; aveva paura, non sapeva cosa fossero esattamente quei bagliori, ma nello stesso tempo sperava che qualcuno fosse arrivato a cercarla.
In due minuti si ritrovò tra le braccia del panciuto fornaio.
Non raccontò a nessuno i dettagli della sua avventura.
"La casa della vecchia era tutta bruciata, non è rimasto niente la dentro" - balbettava sotto le coperte, mentre la sua mamma le stringeva la piccola mano. "E così ci hai fatti preoccupare per nulla, eh?" - la donna le diede un buffetto sulla guancia, poi le tirò su le coperte; aveva perdonato l'agnellino nel momento stesso in cui la testina nera si era affacciata nell'ovile.
"Niente mamma, non c'era niente.."
Gaia temeva che qualcuno potesse imitarla. Lo specchio la spaventava. Era terribile. Nessuno doveva provare, conoscere quel dolore; nessuno. Si imbucò sotto le lenzuola e poi, pian piano, cadde addormentata; il suo piccolo cuore era affaticato, la dolce nenia della mamma lo accoglieva come in un abbraccio di luce.
La piccola Gaia crescerà e con il passare degli anni si chiederà più volte se l'avventura della foresta sia stata reale o meno. Non riuscirà più a stabilire se ciò che ha visto nello specchio è stato il frutto di una fantasia dettata dalle circostanze, o se invece lei provò davvero tutto quel dolore.
Un giorno, da adulta, tornerà in quella piccola casa grigia, forse in compagnia del suo cane. Prenderà lo specchio, senza guardarci dentro, e lo distruggerà in mille piccole scaglie.
Se quella magia era stata solo il frutto di una sua fantasia, lo specchio non aveva nessuna importanza: se invece tutto era accaduto veramente, allora doveva essere distrutto. E dimenticato.
Dopo, Gaia, non tornerà più nella foresta, non racconterà a nessuno strane storie di specchi e vecchie misteriose. Ai suoi figli non narrerà fiabe che in qualche modo possano ricondursi a quella casa.
La vecchia faceva bene a tenerlo nascosto, a non rivelarne il potere. Perché poi la gente ha voglia di provare. Incredula o curiosa, ha voglia di provare.
Forse la vecchia lo aveva guardato più volte... o qualcuno a lei caro lo avevo provato. E lei, da allora, non aveva più voluto che altri soffrissero così tanto. Lei sapeva che il troppo dolore può uccidere.
Gaia avrebbe seguito il suo esempio. Se lo promise quella notte, mentre nel suo letto stringeva la mano materna.
"Niente mamma, non c'era niente.."

lunedì 22 settembre 2008

Autunno

Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno
soprattutto se ho avuto quel giorno,
una buona notizia
soprattutto se il cuore, quel giorno,
non mi fa male
soprattutto se credo, quel giorno,
che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno
mi sento d'accordo
con gli uomini e con me stesso.
Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
dei viali d' ippocastani.

(Nazim Hikmet)


Ecco giungere il silenzioso autunno
la stagione più amata dal mio cuore
perché sfoggia un ventaglio di caldi colori
perché cela nel suo stesso nome una nota di malinconia
perché il crepitio delle foglie secche sotto i piedi mi strappa sempre un sorriso
perché l'aria è fresca al punto giusto, stuzzica il naso senza tagliare
perché ciò che muore rinasce a nuova vita
perché la pioggia cade senza rumore.


*foto di Darwin Bell

mercoledì 17 settembre 2008

Blog&Nuvole: quando la Scrittura incontra il Fumetto

Parole e linee, frasi e colori, racconti e vignette.Si tratta dell'unione tra Scrittura e Fumetto, proposta da un interessante iniziativa di Cristina Vannini Parenti e Lucia Saetta, Blog&Nuvole.

L'idea è quella di unire i blogger che si dilettano a scrivere in rete, con illustratori ed artisti.

Come?
Tutti gli scrittori del web sono invitati a proporre testi inerenti cinque temi (Allo Specchio, Galleria del tempo, Oggetti anima, Onirica, Storie scalene), entro la fine di ottobre.
Da novembre partirà la seconda fase, dove gli illustratori e i fumettisti daranno vita alle parole e ai racconti.
Per ogni categoria verrà designato un vincitore, al quale... bhe, se siete interessati e volete conoscere ulteriori dettagli, vi consiglio di consultare il regolamento ;)

L'iniziativa mi piace molto (altrimenti non l'avrei segnalata) e poi il disegno è da sempre una delle mie passioni (forse sarebbe il caso di scrivere "il mio passatempo preferito, niente di più"); aspetto dunque con entusiasmo e curiosità il momento in cui potrò buttare gli occhi sui lavori finali del concorso.

Blog&Nuvole è un progetto a cura di Cristina Vannini Parenti e Lucia Saetta, realizzato in collaborazione con la Triennale di Milano e la Fondazione Cologni dei Mestieri d'Arte.

martedì 16 settembre 2008

guarda un pò l'Italia vista dall'estero

Cosa scrivono i giornali europei sulla nostra nazione? sulla nostra politica estera, interna, sui cambiamenti sociali, sulla giustizia? Ce lo dice Italia dall'estero, un sito di informazione gestito da un gruppo di ragazzi italiani che per studio o lavoro si trovano all'estero.
Ecco come si presentano tra le pagine del sito:

Siamo italiani residenti all’estero da diversi anni.
Vivendo e lavorando fuori dall’Italia vediamo il nostro Paese anche attraverso gli occhi di altre culture. Il confronto ci ha fatto scoprire un’Italia diversa da quella che conoscevamo.


E l'Italia diversa la mostrano costantemente a tutti i loro lettori, con accurate traduzioni di pezzi provenienti da più di venti paesi diversi. Navigare su Italia dall'estero è semplice, immediato; i testi sono divisi per categorie (Economia salute e ambiente, Giustizia, Personaggi d'Italia, Politica estera, Politica interna, Società cultura e religione) in modo da facilitare la consultazione tematica.
Vi lascio con le parole che mi hanno catturata e convinta:

noi vogliamo dare un piccolo spazio alla silenziosa lettura di quel che scrivono osservatori lontani e distaccati
(...)
Speriamo che questo nostro sito possa darvi un nuovo punto di vista, più ampio, creato da osservatori stranieri sul nostro paese e che possa nutrire la memoria per i tempi a venire.


Con piacere li inserisco nel blogroll ;)

giovedì 11 settembre 2008

quando il vuoto viene dal luogo

Questa mattina, via metapolis, ho avuto modo di leggere l'articolo che il New York Times ha pubblicato per la ricorrenza dell'11 settembre, A 9/11 Loss Some Can See From Their Window, Still. 

Non il solito pezzo dedicato alla commemorazione delle vittime, al terrorismo, alle azioni in corso dell'esercito americano, ma una riflessione sul vuoto che l'assenza delle Torri suscita nell'animo dei newyorkesi, privati di un pezzo importante della loro città.
Mi colpisce il taglio dell'articolo perché per una volta si punta l'arco sul panorama rubato. Non solo ferite che sanguinano nel cuore; esiste anche un senso di vuoto e mancanza che nasce e geme negli occhi.

Chi ama soffermarsi a contemplare paesaggi naturali o scorci di città, sa bene come un luogo sia in grado di estirparci sensazioni e sentimenti, di emozionarci, di accoglierci nel momento del dolore e della serena gioia.
 I luoghi permettono alla nostra anima di emergere e quando lei esce fuori si lega inscindibilmente al paesaggio che l'ha chiamata. Così come si lega al paesaggio che l'accompagna nel cammino quotidiano.

Mentre leggevo l'articolo, mi è tornato in mente un ricordo, di qualche anno fa.
Nel mio paese avevano iniziato da poco i lavori di restauro al vecchio rudere castellense. Mia madre è cresciuta in mezzo a quelle pietre, custodi di ricordi ed emozioni.
Nei giorni in cui sapeva che gli operai lavoravano presso il castello, non poteva fare a meno di rivolgere lo sguardo al picco dove sorgono le due torri e gli altri ruderi.
Mi spiegò che nonostante fosse contenta del recupero e dei lavori di qualificazione, percepiva come una stretta al cuore, una ferita, all'idea che degli estranei mettessero mano sulle "sue" pietre.
Stavano modificando il suo luogo; riportavano in vita muri e pavimenti nascosti, ma nel cuore di mia madre storpiavano un immagine abituale e rassicurante.

I luoghi in cui viviamo ci appartengono, nel ricordo e nel presente.

Così come ci appartengono i luoghi che visitiamo o che attraversiamo al nostro passaggio. Quante volte nel ripensare alle città e alle nature viste e visitate, ho avuto voglia di rivederle, per provare di nuovo le emozioni che mi avevano suscitato.

E così provo a immaginare la ferita che si apre ogni volta che un  newyorkese guarda fuori dalla finestra, quel vuoto che avverte nel paesaggio estraneo ogni volta che lo sguardo affronta Gound Zero; paesaggio incompleto quello senza le due torri... come se ad un parigino togli la Tour Eiffel, come se a Roma fai sparire il Colosseo, come se al mio paese togli il suo castello.
Si rompe un filo del legame. Una parte di noi tramonta e non risorge più.
Osservare il posto che occupavao le torri è come osservare un luogo fuori dal luogo, senza spazio e tempo non definito, astratto, inconsistente.

Penso che non potrei guardare con serenità un paesaggio straziato, se nel mio ricordo splende.


E tutto si riassume qui, nelle parole di Christine Sugrue:

“Whenever I look over there, I’m always conscious that’s something missing.”

mercoledì 3 settembre 2008

Evoluzione

Mare di TropeaSi gettò incurante dei brividi che l'assalivano ad ogni passo.
L'acqua era bassa e fredda; limpida come uno vetro liquido.

Amava nuotare, lasciarsi avvolgere dalle carezze delle onde.
Nuotare e galleggiare.
Avanzare con movimenti precisi, sicuri; poi fermarsi. E abbandonarsi alla leggerezza.

Alzò gli occhi verso il cielo ed era azzurro. L'aria profumava di vento; il vento portava con se l'odore del bergamotto, della sabbia, del sale.

Quella striscia di spiaggia era davvero incantevole, incorniciata da piante selvatiche e fiori vivaci.

Abbassò gli occhi verso l'acqua e questa era blu. Rifletteva il cielo ma ne arricchiva il colore.
Era più carico, denso e inconsistente allo stesso tempo. Era trasparente ed accecante.
Circondava il suo corpo, le mani, le dita, come a volerlo inghiottire.
Ad ogni movimento si smarriva e subito dopo si ricomponeva nella stretta.
Era proprio un colore avvolgente.

Respirò profondamente.
Guardò verso riva e dentro di sè trovò il desiderio di non tornare.

Si era abituata alla temperatura dell'acqua, ora le sembrava di cuocere in un brodo profumato di pesce, frutta, fiori e sassi. Percepiva nettamente l'odore della sua pelle, sempre più salata.

Muoveva le braccia con delicatezza, seguendo il flusso della corrente e delle lievi onde infinite. Le sue mani sembravano appartenere a quel fluido, fondersi in esso.

Persa in questa sensazione, le osservava distratta e i contorni si smarrivano.
Una strana sonnolenza pareva intorpidirla.
Forse si era rilassata troppo... tornò vigile ma continuò a guardar le mani innanzi al suo viso.
Immerse nell'acqua. Che si confondevano con l'acqua. Si scioglievano.
Limpide, trasparenti.

E non era una sciocca fantasia, davvero le sue mani si stavano comportando come terriccio sciolto in un liquido.
Si perdevano nel blu. Diventavano blu.
Come le braccia. Come le gambe. Come il resto del corpo. Come il cuore e come il cielo, l'ultima cosa che vide prima di abbassar le palpebre sul buio.

Non ebbe paura di tramutarsi in mare.
Continuò semplicemente a muoversi e dondolare.