giovedì 27 marzo 2008

La Freccia del Sud

Gli sguardi si incrociano mentre abbozziamo sorrisi coraggiosi.
Ci sosteniamo a vicenda, fraternamente; siamo membra dello stesso corpo.
Incomincia la notte d'appartenenza ad un treno che assorbe i nostri odori, i sudori, le nostre lacrime nascoste, la polvere delle scarpe e la terra appiccicata alle ruote delle valigie. Assorbe noi e quelli che son passati prima di noi.
Domani accoglierà con immutato e nauseabondo odore altri esuli di ritorno.

Il suo nome è Freccia del Sud.
Da sempre, chi viaggia sulla Freccia ama designare l'avanzata notturna come il "Viaggio della Speranza".
E' un epiteto che ci riempie di forza, vigore e allo stesso tempo ci angustia il cuore.

Siamo qui, che ci osserviamo prima di proferir parola.
Siamo compagni: condividiamo lo stesso senso di smarrimento, ogni fine giornata, nel momento che precede l'abbandono tra le braccia del sonno e rammentiamo di trovarci in terra straniera. Conosciamo bene anche quella sgradevolezza mattutina che ci assale nel risvegliarci tra mura silenziose, senza che dalla cucina, dal soggiorno o dal giardino, provenga il gorgoglio di voci germogliate da carne e sangue uguale al nostro.

Ci osserviamo distrattamente complici. E' un tempo fermo, lo sappiamo bene; il treno trascina i nostri corpi stanchi, alcune facce inebetite si riflettono sui vetri.

I minuti che passano dal momento in cui si termina di sistemare i bagagli pesanti, negli spazi riservati all'interno degli scompartimenti o più alla buona fuori nel corridoio, fino all'istante in cui qualcuno decide che è giunta ora di far chiacchiera, sembrano eterni e interminabili; ma appena scoppia il chiacchiericcio scompaiono dalle nostre menti, come se non li avessimo mai vissuti, come se in fondo quel tirare il fiato e guardarci attorno ci fosse servito per ricaricare la linfa e rifiorire, per assorbire l'odore emanato dai sedili e farlo nostro, per sentirci a casa, per mischiarci con la polvere ed il colore verde-bluastro dei rivestimenti che ci circondano.

E si raccontan storie, apriamo i cuori e svisceriamo i segreti, chi siamo e dove andiamo, da dove veniamo e chi stiamo correndo ad abbracciare.
Hai lasciato due figli, la fidanzata, la mamma o il vecchio nonno, sei un soldato, lavori, studi, i soldi dello stipendio non arrivano a fine mese, prima di trovar casa su al nord hai dormito come uno zingaro nella tua macchina o nei pressi di qualche stazione d'autobus; sembrano storie di altri tempi, sono le nostre, uguali e diverse.

E c'è chi prende la sopressata calabrese, con quel profumo invadente e pungente di peperoncino, dipinta di un rosso così splendente da far invidia al più bel tramonto sul Tirreno; intanto prendi anche il vino, i bicchieri di plastica non mancano mai, volete un panino? C'è sempre da banchettare sulla Freccia del Sud.


Poi tutto si quieta. Pian piano.
Si scivola in un silenzio che ha il sapore impalpabile dell'irreale. Chiudiamo la luce. Si scosta la tenda che da sul corridoio.

La nostra Freccia scivola veloce su un binario che è dritto e liscio come l'olio.
Stiamo tornando a casa.
Il pensiero si concretizza per un attimo nella mente e avverto che la parola "casa" brucia, come un fuoco, e sfiora il limitar delle ciglia umidificandole con il contatto.

Fuori dal finestrino splende una luna immensa, così luminosa da ferir lo sguardo.
E io guardo quella distesa di terre e campi che mi lascio alle spalle ogni secondo che passa, bagnata da latte lunare che tutto ricopre con la trasparenza di un velo.

Questa notte non è nera.
Siamo immersi in una magia di blu, siamo come un pesce che si abbandona alla corrente di un mare senz'acqua.

E sento i miei occhi tirar giù le palpebre, come han già fatto tutti i miei compagni. Al risveglio il mio sguardo si getterà sull'orizzonte e vedrò la mia terra, mio amato sud, disteso sotto un'alba rosea e oro, abbracciato dal turchese Mediterraneo.
Mi sembrerà di svegliarmi dopo un lungo sonno, il cuore batterà la parola "casa" una, dieci, milioni di volte; e io conserverò il ricordo di questo viaggio come fosse un sogno,
evanescente,
inafferrabile,
mio.

mercoledì 26 marzo 2008

Iris

Iris

solo per ricordarmi che ti devo un altro Grazie...

giovedì 20 marzo 2008

I Luoghi del Dolore

luoghi del doloreLe passo lentamente davanti, guardandola. I suoi occhi si fissano su di me, ma non sembra vedermi; ha l'aria di non riconoscersi nella sua angoscia. Faccio qualche passo. Mi volto...
Sì, è lei, è Lucia. Ma trasfigurata, fuori di sé, soffrendo con una folle generosità. La invidio. Sta lì, ritta, a braccia aperte, come se attendesse le stimmate; apre la bocca, soffoca
. Ho l'impressione che i muri siano diventati più alti, ai due lati della strada, e che si siano ravvicinati, ch'ella si trovi in fondo a un pozzo. Aspetto qualche istante: ho paura ch'ella possa cader giù, rigida; è troppo gracile per poter sopportare questo dolore eccezionale. Ma non si muove, sembra mineralizzata come tutto ciò che la circonda. Per un istante mi domando se non mi sia sbagliato sul suo conto, se non sia questa che mi vien rivelata d'un tratto la sua vera natura. Lucia emette un piccolo gemito. Porta la mano alla gola aprendo due grandi occhi stupiti. No, non è in se stessa che attinge la forza di tanto soffrire. Le vien dal fuori... è questo viale. Bisognerebbe prenderla per le spalle e condurla alla luce, in mezzo alla gente, nelle strade dolci e rosee: là non si può soffrire così forte; ella s'ammorbidirebbe, ritroverebbe la sua aria positiva ed il livello ordinario delle sue sofferenze. Le volgo le spalle. Dopo tutto lei è fortunata. Io sono calmo da tre anni a questa parte. Queste solitudini tragiche non possono più darmi nulla se non un pò di purezza e vuoto. Me ne vado. (La Nausea, Jean-Paul Sartre)

Ci sono luoghi che liberano la nostra anima dall'inquietudine, rasserenano il cuore e lo sguardo. Altri luoghi distraggono la mente dagli affanni quotidiani, regalano un sorriso e lo stupore.

E poi ci sono quelli che invece ci trascinano in basso. Dove il nostro buio ci travolge e il corpo si abbandona senza freni al male dello spirito.

Luoghi in cui non ci vediamo, non ci sentiamo, non ci tocchiamo, non siamo.
In cui ci scopriamo ad immergere le braccia nella cloaca, per afferrare quella forza misteriosa che non conosce né vergogna e né contegno.

Sono i luoghi in cui conquistiamo la forza per soffrire.
Perché non sono illuminati, perché sono sperduti o insoliti, perché hanno il profumo giusto, il silenzio perfetto, il rumore che ci piace. Perché sono desolati o brulicanti di persone.

Io non conosco ancora le sembianze del mio Luogo del Dolore.
Non l'ho trovato. Forse non l'ho saputo cercare. O non l'ho cercato abbastanza.

E mi manca.

Per trovarlo non esistono indicazioni, solo istinto. E' un luogo dimenticato da tutti gli altri, viene attraversato o intravisto senza considerazione. Aspetta me, nel momento giusto.
Come il viale in cui si trovano i due personaggi del testo in alto. Un viale dove il freddo e la notte sono puri. Dove si può soffrire forte.

Ho bisogno di estirpare questa rabbia che giorno dopo giorno mi trasforma in quella che non voglio essere.

Voglio vivere il mio dolore eccezionale, purificarmi nel mio deserto e urlare senza più voce.


Poi, dopo, risorgere.


A nuova primavera.





mercoledì 5 marzo 2008

Sull'autobus...

E' da qualche mese ormai che la mattina prendo l'autobus per recarmi al lavoro.
Non ho l'abbonamento annuale, né quello mensile, né tantomeno il settimanale.
Solitamente acquisto il biglietto prima di salire a bordo, presso l'edicola più vicina a casa.
Alcune volte ho comprato il carnet di dieci biglietti, in modo da non dovermi scomodare ogni volta, almeno per qualche giorno.

E poi arriva un lunedì mattina in cui non mi ritrovo nessun biglietto in tasca, senza contare che da casa stavo uscendo in ritardo, quindi niente edicola, pazienza, mi dico, lo comprerò a bordo anche se mi costa 0,50 cent in più.
Peccato solo che dopo due minuti rimango a bocca aperta di fronte alla conducente, una signora bionda dallo sguardo materno, che afferma dispiaciuta: "non li ho, li ho finiti ieri a fine servizio e non li ho ancora acquistati".
Lì per lì non sò cosa dirle..nel tragitto che collega casa mia all'ufficio salgono spesso dei controllori (in particolare proprio il lunedì), una multa non mi va proprio di prenderla, l'autobus riparte ma io già pensavo di scendere alla fermata seguente, quando la signora conducente domanda ad alta voce: "c'è qualcuno qua dentro che ha un biglietto in più e può rivenderlo a questa ragazza?"
Speranza lieve.
Subito infranta da un'onda di sguardi freddi, gelidi e taglienti, scandalizzati, accusatori, della serie "è salita senza biglietto, cavoli suoi, magari voleva pure la furba, non gli venderei un biglietto nemmeno se ne avessi altri venti in tasca".

Pazienza.
L'autobus si avvicina alla nuova fermata, sorrido benevolmente alla conducente e mi appresto a scendere.
"Aspetta, ti dò il mio".



E' un ragazzo dalla pelle lievemente scusa, dai tratti somatici stranieri.
Mi porge un biglietto un pò sgualcito, come fosse stato stretto lungamente in mano.
Tento di dargli i soldi corrispondenti al prezzo, ma non li vuole.
Insiste con forza, non mi permette di pagarlo.

Ringrazio, timbro, mi siedo.

E guardo quel biglietto. Che sembra raccontarmi la storia di un ragazzo che forse i biglietti non li timbra mai. Che sale sull'autobus e siede in avanti, tentando di scorgere ad ogni nuova fermata la sagoma di un'eventuale controllore, per convalidare quel pezzo di carta in tempo, prima che le macchinette vengano disabilitate dal conducente. Altrimenti prosegue il suo viaggio gratis.
Mi racconta la storia di un ragazzo che ha stretto quel biglietto in mano per molti giorni, si vede dalle pieghe della carta, in corrispondenza delle quali il colore giallo limone è andato quasi via, lasciando il posto ad un reticolato bianco. Anche le scritte rosse e nere sembrano sbiadite. Forse a causa del sudore della mano. Un biglietto compagno di più viaggi, a differenza mia che ad ogni corsa d'autobus ne getto via uno.

Ho come la sensazione che non mi abbia permesso di pagarlo perché lui in fondo, quella stessa corsa d'autobus, la stava attraversando "gratuitamente".
Io invece avevo chiesto di pagare e in alternativa rinunciavo al servizio.
Quel ragazzo mi ha permesso di proseguire il mio viaggio tranquilla.
Sarà lui a scendere non appena la figurina nera si staglierà all'orizzonte della strada. O forse non farà in tempo perché questa volta non la riconoscerà, e si prenderà una multa, lui, che con quell'unico biglietto aveva percorso molte strade.

Lo sò bene, sono fantasie. Divagazioni. Ma il suo sguardo, nell'offrirmi quel biglietto, era tenero, colpevole, umile, basso. E durante il resto del tragitto ha continuato a guardare fisso la strada avanti a sè, con attenzione, come fosse un animale in procinto di fiutare il pericolo.
Ma sono fantasie.
Ciò che resta davvero è il suo gesto.

Inaspettato.

Grazie.

Perché anche i piccoli gesti meritano due parole.