mercoledì 24 dicembre 2008

un addio, un benvenuto, un arrivederci

Ci avviciniamo alla fine, arriva per tutti, anche per te.

Sei stato un anno difficile e bello, tanto mi hai dato, tanto mi hai tolto.

Spero di averti dato qualcosa di buono anche io: in tal caso, passa tutto al fratello tuo che sta per arrivare, affinché si conservi traccia.
Le cose brutte non cancellarle, ma tienile per te. Io cercherò di porvi rimedio e, semmai ci riesco, poi le passiamo nelle mani dell'altro fratello ancora.

Siete tanti, sembra che non finiate mai.
E ognuno deve aver memoria di quando il precedente ha visto e sentito.

Ma le cose brutte lasciamole indietro, affinché nessuno desideri emularle.
Io, noi, cercheremo di porvi rimedio.
Sbagliandone altre, forse, ma cercheremo di porvi rimedio.




Buon 2009 a tutti voi.

Ci si legge a gennaio.

mercoledì 26 novembre 2008

ultimo saluto

Di storie e favolette ci hai riempito l'infanzia.
I tuoi racconti erano pieni di personaggi surreali, di vicende improbabili, di luoghi visti e vissuti.
Un misto tra fantasia e verità; il tutto sempre accompagnato da sane risate.

Le tasche dei pantaloni erano sempre colme di noci, noccioline, castagne o semi di zucca seccati al sole.
Quando meno ce lo aspettavamo afferravi le nostre mani e con movimenti fulminei ci lasciavi il piccolo regalo da sgranocchiare. Poi ti allontanavi, con gli stessi passi furtivi del bambino che ha compiuto la marachella.

Di storie preferite ne avevo diverse, ma una giace in un posto particolare del mio cuore.
Me la raccontavi soprattutto in estate, quando giocavo con le formiche e le cicale cantavano sotto la calda luce del sole. Forse perché proprio le formiche e le cicale erano tra i protagonisti della storia.

"Quando la grande Regina, Madre delle Formiche invecchiò, divenne così debole da non riuscire nemmeno a mangiare da sola. Era davvero molto stanca: per tutta la vita non aveva fatto altro che lavorare e adesso, nei suoi ultimi istanti di vita, decise di chiamare tutte le altre formiche al suo capezzale, per salutarle e per farsi accudire.
- Figlie mie - chiamò la Regina Madre - figlie... accorrete, i miei ultimi istanti si avvicinano. Datemi qualcosa da mangiare e da bere, state in mia compagnia, avete lavorato molto oggi, fermatevi un istante per me"
Le formiche, dedite alle loro faccende, voltarono la testa verso la Regina e risposero:
- Madre, non possiamo. Dobbiamo sbrigarci a portare dentro tutti i semini, le briciole, i pezzi di cibo che si trovano sotto il sole. Abbiamo ancora molti spazi da riempire qui dentro, non possiamo fermarci, il lavoro ci aspetta.
All'udire queste parole, la Regina Madre si alterò così tanto che urlò: Siate maledette tutte quante voi! Da oggi, lavorerete ogni giorno della vostra vita come schiave, senza mai fermarvi, per accumulare ricchezze su ricchezze. Ma d'inverno, sotto le pioggie, le vostre case si allagheranno e sarete costrette a portare nuovamente fuori dal formicaio tutti i semini e i pezzi di cibo raccolti. E nell'aspettare che i deboli raggi di sole li asciughino, dal cielo scenderanno i passeri affamati per rubarvi tutto il raccolto. Questa è la mia maledizione: che non possiate mai godervi il frutto del vostro lavoro!
Detto questo, la vecchia Madre spirò."

"Anche la grande Madre delle Cicale, molto vecchia e molto stanca, si ritrovò sul letto di morte senza riuscire più a bere ed a mangiare. Per tutta la vita non aveva fatto altro che cantare e adesso faceva fatica persino a chiamare le sue figlie a raccolta:
- Figlie mie - chiamò la grande Madre - figlie.. accorrete. Interrompete per un attimo il vostro canto e venire accanto a me, fatemi compagnia e datemi un pò di cibo e un pò di acqua.
Le cicale, tutte allegre e festanti per il bel sole estivo, voltarono la testa verso la moribonda e risposero:
- Madre, cerca di comprendere, purtroppo non possiamo interrompere il nostro bel canto. Tutta la natura sorride grazie alla nostra allegria, anche gli uomini sono felici di ascoltarci, non possiamo smettere, dobbiamo continuare a cantare.
La vecchia Madre fu piena di sdegno, la rabbia si impadronì di lei e urlò: Siate maledette tutte quante voi! Da oggi, canterete incessantemente senza prender fiato fino a quando morirete dal troppo cantare! Non riuscirete a capire quando è il tempo di fermarvi e scoppierete attaccate a quegli alberi che non avete voluto lasciare per venire da me. Questa è la mia maledizione: che il vostro incessante cantare e cantare e cantare vi porti alla morte!
Detto questo, la vecchia Madre spirò."

"Anche la grande Regina, Madre delle Api, giungeva alla fine dei suoi giorni. Si ritrovò stanca e indebolita, dopo una vita trascorsa a svolazzare di fiore in fiore, immersa tra il profumo delicato o intenso dei petali e delle corolle.
Tutte le Api erano al suo fianco, per accudirla e coccolarla. Alcune le intingevano le labbra con la pappa reale, per addolcire gli ultimi istanti della grande Regina. Le piccole Api, affettuose e commosse, non abbandonavano la vecchia ape per un solo istante. Altre si asciugavano gli occhi con le piccole zampine, e stavano una vicina all'altra, tutte insieme.
- Figlie mie - disse allora la Regina Madre - io vi benedico, tutte quante, per ciò che state facendo in questi miei ultimi istanti di vita. Sia benedetto il vostro lavoro, caro all'uomo. Egli mai vi darà la caccia per uccidervi, ma gli sarete care, di voi non avrà paura perché per lui produrrete il buon miele. Il frutto del vostro lavoro sarà abbondante, così come le benedizioni che da me ricevete.
Detto questo, spirò tra le lacrime delle piccole Api."

E tu caro nonno, negli ultimi giorni della tua vita, sei stato per noi come la Regina delle Api.
Il punto luminoso attorno al quale radunarci. Al tuo capezzale sono accorsi parenti, amici e conoscenti. Tutti han desiderato esserti vicini nei tuoi ultimi mesi.
Perché ci eri caro e perché ti eravamo grati, perché i nostri cuori erano colmi di affetto. Non ti è mancata la pappa reale, nè le nostre lacrime. E siamo certi che tu di hai lasciato con ogni benedizione.

E così la tua storia si è conclusa come forse hai sempre desiderato: non eri solo, noi eravamo con te.

E così resteremo per sempre.

domenica 28 settembre 2008

Lo Specchio della Foresta Nera

Oltre le mura del villaggio, in direzione nord-ovest, sorge una grande foresta di alberi neri.
Te la ritrovi in faccia quasi all'improvviso poiché per giungervi occorre attraversare una lunga serie di collinette e avvallamenti che ne nascondono la vista durante il cammino. Esci dal villaggio e trovi un piccola salita, poi scendi, risali e scendi, passi il fiumiciattolo che nelle stagioni calde non è altro che un minuscolo rigagnolo, attraversi un prato di papaveri, risali e poi quando ti trovi nel punto più alto, appare alla tua vista la vallata con la nera foresta.
I tronchi degli alberi sono scuri e le foglie color del carbone che più non brucia. Nel villaggio raccontano come negli anni passati la foresta fosse verde e rigogliosa; poi arrivò una notte terribile, in cui il cielo si tinse di bagliori rossastri e la brace prese il posto di pietre e fili d'erba. La foresta bruciò come se si trovasse all'interno di una fornace, tutta insieme, unita nel mostruoso falò, senza che il fuoco sfiorasse appena l'ambiente circostante.
Raccontano, i vecchi del villaggio, che all'interno della foresta viveva una vecchia donna, o almeno, pensavano fosse vecchia a causa della voce roca e della schiena curva; tuttavia nessuno ne aveva mai visto il viso, sempre ben nascosto dall'ampio cappuccio del mantello.
Quando la foresta fu divorata dalle fiamme, della vecchia si perse ogni traccia. Nessuno, negli anni a seguire, osò varcare la soglia delimitata dagli alberi bruciati; il loro aspetto irreale incuteva timore.
Nonostante avessero arso per ore intere, si erano rifiutati di dissolversi in cenere. I tronchi restavano ritti, le foglie attaccate ai rami, le radici ben salde nel terreno. Ma erano neri, come l'ombra, come la tenebra, come il carbone spento.
Ma oggi, sotto il cielo terso di un giorno d'estate di rossi papaveri, la piccola Gaia si era spinta sul limitare della foresta, ben intenzionata a violarla. Il nonno le aveva raccontato nuovamente la storia dell'incendio, ripetendo le stesse parole di ogni volta, ma poi si era intromessa nel racconto la nonna, che passava di là con le braccia colme di zucchine; si era fermata, aveva ascoltato pochi istanti e: "questa storia è davvero affascinante ma io trovo ancor più misterioso che nessuno sia mai andato a recuperare lo specchio della vecchia signora!". "Quale specchio?" - aveva chiesto la bimba sgranando gli occhi, entusiasta per la scoperta di un nuovo particolare della sua storia preferita. La nonna sedette accanto a lei e continuò: "Lo specchio che la vecchia nascondeva in casa sua. Il fruttivendolo e il ricottaro, che si recavano spesso nella foresta per venderle le loro mercanzie, raccontarono nel villaggio di come la vecchia tenesse uno specchio, coperto da un telo rosso, all'interno della casa. Una volta, uno dei due, non ricordo bene chi, le aveva anche chiesto cosa nascondesse dietro il telo. Lei rispose che si trattava di uno specchio, ma preferiva tenerlo così, per evitare di osservare la propria immagine riflessa". "E perché dici che era magico nonna?" - "Ah, non lo dico io, ma lo disse l'intero villaggio, per giorni e giorni... Perché una volta uno dei due venditori, anche qui non mi ricordo quale dei due, le chiese di vederlo ma la vecchina, dopo quella richiesta, lo sbatté fuori di casa in malo modo. Poi arrivò l'incendio. Ho sempre pensato che qualche comitiva di comari curiose sarebbe andata a recuperarlo, ma così non è stato" - "Perché si tratta di frottole! - sbraitò il vecchio nonno e così facendo, concluse il racconto della nonna per proseguire con la storia degli alberi che bruciarono diventando neri.

Ormai il danno era fatto.
Mai rivelare ai bambini l'esistenza di cose misteriose e poi chiudere con la parola "frottole" o "stupide fantasie" o "sciocche bugie".
I bambini si sentono in dovere di svelare l'arcano, affinché gli adulti non incorrano in errori di valutazione.
La piccola Gaia si inoltrò nella foresta, per scoprire quale dei due nonni aveva ragione.
L'interno della foresta nera era tetro più di quanto la bimba avesse immaginato.
Nero il sentiero, neri gli alberi, non un verso di animale. Dall'alto riusciva a far breccia qualche raggio di sole che nello scendere in basso si trasformava in una luce tenue e irreale, grigia e polverosa, a volte fluttuante come vapore.
Il cuore della bimba batteva forte, si guardava attorno con sospetto, cercava di porgere attenzione a dove posava i piedi, ma era tutto nero e la poca luce non riusciva a difenderla dagli ostacoli.
Cadde tre volte, e nel cadere sentì la fuliggine avvolgerla. Starnutì. Poi si alzò e si guardò le mani, nere come la pece. Anche le ginocchia erano diventate nere e probabilmente anche il volto; più volte si era toccata in viso per darsi qualche buffetto tranquillizzante.
Tuttavia non tornò indietro, procedette determinata come un soldato in guerra dal cui buon esito della missione dipendono molte vite umane.
Cammina, cammina, eccola distinguere finalmente qualcosa che non sembrava un albero. Un enorme blocco grigio, un pezzo unico, come una parete. La casa della vecchia.
Gaia iniziò a correre per giungervi il più in fretta possibile, il cuore impazzava, scappava come fosse seguita dagli alberi tutti della foresta, come se qualcuno o qualcosa volesse impedirle l'ingresso nella casa.
Corse, corse, corse, sbatté quasi contro la porta non riuscendo a fermarsi del tutto nello slancio, tirò in basso la maniglia, aprì, entrò, chiuse!
Adesso era immobile, con le spalle al muro, mentre tentava di calmarsi. Il respiro era un po affannato, ma lo controllava; il rumore frenetico del battito del cuore le balzò all'orecchio.
L'interno della casa era più luminoso dell'intera foresta. Nel bel mezzo del soffitto c'era un grande buco, probabilmente provocato dall'incendio: il tetto era crollato ed ora entrava un raggio di sole tiepido. Gaia camminò fin sotto il buco, guardò in alto e vide alcuni rami pieni di foglie far capolino sulla strettoia, sopra di loro il cielo ed il sole.
Tranquillizzata dalla presenza della luce, iniziò a guardarsi attorno.
Non ci volle molte: il velo rosso era l'unico colore che spiccava in quella casa grigia e consumata dalla notte.
Si avvicinò alla parete, prima di scostarlo si fermò ad ascoltare il suo stesso respiro per diverse volte.
Poi inghiottì il rospo ed aprì!

Che orrore! urlò e balzò indietro; nel mentre si rese conto di non aver visto altro che se stessa, nera come un legno bruciato.
Con le mani affumicate scostò i capelli dagli occhi e si riavvicinò allo specchio per guardare.
* * *
"Tesoro, cos'è questo?" - chiese il ragazzo voltandosi con un dolce sguardo, uno di quelli che riescon bene solo agli innamorati.
"E' il vecchio specchio di mia nonna... mia mamma dice che deve stare coperto dal telo, perché può essere pericoloso" - rispose la fanciulla senza voltarsi. Stava sistemando una ciocca ribelle che sfuggiva dalla treccia, che fastidio! "Pericoloso? e perché mai?" - "Non lo so.. ma la mamma non sopporta la sua vista. Dice che è maledetto, che la nonna ha infuso in questo specchio tutto il suo dolore" - "Ma di cosa parli? che dolore?" incalzò il ragazzo. "Quello che lei sopportò quando uccisero sua figlia, la sorella maggiore di mia madre. La trovarono nella foresta, straziata... fu aggredita da qualcuno.. non sappiamo chi... venne trovata sanguinante, ferita nel viso e nel corpo. Il medico disse che era stata uccisa lentamente, con molte sofferenze. Mia nonna si ammalò dal dolore e non si riprese più. La mamma ricorda come negli ultimi giorni continuava a guardarsi in questo specchio, cercando nei suoi stessi occhi risposte che non potevano arrivare, consumandosi nella sua immagine riflessa, infondendo tutta la sua sofferenza nel volto che viveva nell'altro lato dello specchio. Mia mamma, dopo la morte della nonna, non è più riuscita ad utilizzarlo. Ci provò, ma dice che lo specchio le provocava sofferenza, come se le facesse percepire del dolore; non il suo, ma quello degli altri, quello che lei aveva provocat.." - "Ahahahah, ma che sciocchezza... dai! Mi spiace per la tua povera zia, davvero una brutta fine, ma poi non puoi raccontarmi una storia simile. Lo specchio magico, ma và! E' ovvio che la povera nonna perse la ragione a causa dal dolore, ma da qui, a sentire il dolore altrui nello specchio.. " - "La mamma dice che la nonna poteva sentire il dolore provato dalla zia, è per questo che non riusciva a smettere di piangere, di star male, di guardarlo, per soffrire come lei, con lei.." - "Amore, ma tu ci credi?" - adesso la guardava incredulo - "credi davvero a queste storie che parlano di maledizioni, oggetti magici, fantasmi o stregonerie varie?" - "non lo so... non lo so se ci credo, ma non mi va di guardare quello specchio! Gli oggetti si portano dietro qualcosa di chi li ha posseduti. Le case odorano dei loro proprietari, un oggetto può anche trasmettere dolor..No! FERMATI!!"
Troppo tardi.
Mentre la fanciulla parlava, il ragazzo si era portato davanti lo specchio e aveva sospinto via il velo.
In un solo attimo il suo viso divenne pallido, gli occhi sbarrati. Dalla bocca spalancata colò via un filo di bava, rimase impietrito, con i muscoli tirati e le mani tremanti. Lui non aveva urlato e non urlò. Fu come uno schianto improvviso.
Uno schianto come quello della sera in cui aveva rubato la macchina di suo padre, a 15 anni, per fare un giro con gli amici. Si stavano divertendo, erano tutti a casa sua perché i "vecchi" cenavano fuori. Avevano giocato a carte, bevuto un po, poi qualcuno aveva tirato fuori l'idea della bravata "prendiamo la macchina di tuo padre e facciamo un giro?".
Il genitore, sempre molto rigido, proprio quel pomeriggio lo aveva punito severamente per l'ennesima sciocchezza. Forse fu una punta di vendetta a spingerlo ad accettare. Solo un piccolo giro nei dintorni, per dimostrare agli amici quanto fosse vero che lui sapeva già guidare, per far un dispetto ai due "vecchi" ignari; l'orgoglio lo reclamava a gran voce.
Il ristorante in cui cenavano era lì vicino, i genitori avevano approfittato della bella serata e della luna piena per far due passi a piedi. Bastava evitare la strada che portava davanti il ristorante. E poi tornare in fretta, prima del loro rientro. Solo un giro veloce.
Il giro in macchina non andò come sperato, però sì, fu veloce. Subito dopo la prima curva, un uomo apparve nella sua traiettoria: frenò, di botto! Una puzza terribile invase l'abitacolo, come di bruciato. Gli amici, fino a pochi istanti ridenti e vivaci, tacevano in preda alla paura. Aveva frenato in tempo, un miracolo, pensò.
Un vecchio uomo si trovava adesso proprio di fronte al muso della macchina: aveva gli occhi sbarrati, era immobile. Il suo volto era illuminato dai fari, il giovane lo riconobbe: si trattava del vecchio pazzo del paese, che di notte amava passeggiare ai bordi delle strade illuminate dalla luna. Quella sera era appena uscito di casa, qualche passo rilassante, poi... il terrore!
Il ragazzo si era fermato in tempo, non lo aveva ucciso! Poi, in preda al panico totale, senza dire una sola parola, inserì la retromarcia, poi la prima, ripartì, spinse sull'acceleratore e fuggì nella notte.
E il vecchio? Lo lasciò lì, tremante, con la bocca spalancata.
Il mattino seguente lo trovarono morto, ai piedi del suo letto.
Infarto - fu il referto del dottore - probabilmente la morte lo aveva colto mentre tentava di giungere al suo giaciglio, forse si era sentito poco bene e aveva desiderato stendersi.
Nessuno seppe nient'altro su quella notte, nessuno vide. Gli amici lo consolarono: era vecchio, sarebbe morto lo stesso, non è stata colpa tua. E poi tacquero.
Chissà se la morte per infarto è dolorosa... chissà se ha sofferto nel tornare a casa sua.. e se ci fossimo fermati? Queste domande, il ragazzo, se l'era poste per anni... di fronte allo specchio magico, aveva trovato infine le risposte.
* * *
Gaia urlò, pianse, si tirò i riccioli inceneriti, strepitò, prese a pugni lo specchio, pianse e pianse.
Tutto il dolore che aveva provocato ad altri bambini con le sue prese in giro, alla mamma con le sue marachelle, ai piccoli animali che torturava, tutto quel dolore, le arrivò nel cuore concentrato in un solo colpo. Non capiva bene cosa stava accadendo, ma all'improvviso le sembrava di ritrovarsi dentro il cuore di sua mamma, all'interno del cuore della rondinella colpita dalla fionda, nel cuore terrorizzato del topo che affogava, nel cuore afflitto della bambina scema della sua classe, quella che i maestri chiamavano autistica e che per lei era solo una rimbambita.
Soffrì e pianse, pianse; si sentì sul punto di morire, sul punto di volersi uccidere per non soffrire ancora così. Era diventata la vittima di tutto il suo stesso male.
Passarono ore. Quando il sole smise di entrare nella stanza, si rialzò; meccanicamente coprì lo specchio, corse alla porta, aprì: era tutto buio, più di prima. Ma la strada che aveva percorso per arrivare alla casa era dritta, o almeno così ricordava, bastava procedere dritto avanti a se e iniziò a correre. Ma non è facile andare dritti quando le radici ti ostacolano, quando gli alberi ti fan deviare e quando ti rendi conto che forse nemmeno all'andata procedevi in linea retta.
Per sua fortuna nel villaggio si erano allarmati, i nonni non la videro tornare, la mamma si preoccupò, il papà prese con se gli amici e i parenti e partì verso la foresta.
Nel villaggio non l'avevano trovata e i nonni si ricordarono che la curiosità della nipotina era forte, così come forte era il mistero ed il fascino della vecchia foresta, di cui voleva sempre sentir parlare.
Gaia vide delle luci in lontananza e iniziò a urlare; aveva paura, non sapeva cosa fossero esattamente quei bagliori, ma nello stesso tempo sperava che qualcuno fosse arrivato a cercarla.
In due minuti si ritrovò tra le braccia del panciuto fornaio.
Non raccontò a nessuno i dettagli della sua avventura.
"La casa della vecchia era tutta bruciata, non è rimasto niente la dentro" - balbettava sotto le coperte, mentre la sua mamma le stringeva la piccola mano. "E così ci hai fatti preoccupare per nulla, eh?" - la donna le diede un buffetto sulla guancia, poi le tirò su le coperte; aveva perdonato l'agnellino nel momento stesso in cui la testina nera si era affacciata nell'ovile.
"Niente mamma, non c'era niente.."
Gaia temeva che qualcuno potesse imitarla. Lo specchio la spaventava. Era terribile. Nessuno doveva provare, conoscere quel dolore; nessuno. Si imbucò sotto le lenzuola e poi, pian piano, cadde addormentata; il suo piccolo cuore era affaticato, la dolce nenia della mamma lo accoglieva come in un abbraccio di luce.
La piccola Gaia crescerà e con il passare degli anni si chiederà più volte se l'avventura della foresta sia stata reale o meno. Non riuscirà più a stabilire se ciò che ha visto nello specchio è stato il frutto di una fantasia dettata dalle circostanze, o se invece lei provò davvero tutto quel dolore.
Un giorno, da adulta, tornerà in quella piccola casa grigia, forse in compagnia del suo cane. Prenderà lo specchio, senza guardarci dentro, e lo distruggerà in mille piccole scaglie.
Se quella magia era stata solo il frutto di una sua fantasia, lo specchio non aveva nessuna importanza: se invece tutto era accaduto veramente, allora doveva essere distrutto. E dimenticato.
Dopo, Gaia, non tornerà più nella foresta, non racconterà a nessuno strane storie di specchi e vecchie misteriose. Ai suoi figli non narrerà fiabe che in qualche modo possano ricondursi a quella casa.
La vecchia faceva bene a tenerlo nascosto, a non rivelarne il potere. Perché poi la gente ha voglia di provare. Incredula o curiosa, ha voglia di provare.
Forse la vecchia lo aveva guardato più volte... o qualcuno a lei caro lo avevo provato. E lei, da allora, non aveva più voluto che altri soffrissero così tanto. Lei sapeva che il troppo dolore può uccidere.
Gaia avrebbe seguito il suo esempio. Se lo promise quella notte, mentre nel suo letto stringeva la mano materna.
"Niente mamma, non c'era niente.."

lunedì 22 settembre 2008

Autunno

Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno
soprattutto se ho avuto quel giorno,
una buona notizia
soprattutto se il cuore, quel giorno,
non mi fa male
soprattutto se credo, quel giorno,
che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno
mi sento d'accordo
con gli uomini e con me stesso.
Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
dei viali d' ippocastani.

(Nazim Hikmet)


Ecco giungere il silenzioso autunno
la stagione più amata dal mio cuore
perché sfoggia un ventaglio di caldi colori
perché cela nel suo stesso nome una nota di malinconia
perché il crepitio delle foglie secche sotto i piedi mi strappa sempre un sorriso
perché l'aria è fresca al punto giusto, stuzzica il naso senza tagliare
perché ciò che muore rinasce a nuova vita
perché la pioggia cade senza rumore.


*foto di Darwin Bell

mercoledì 17 settembre 2008

Blog&Nuvole: quando la Scrittura incontra il Fumetto

Parole e linee, frasi e colori, racconti e vignette.Si tratta dell'unione tra Scrittura e Fumetto, proposta da un interessante iniziativa di Cristina Vannini Parenti e Lucia Saetta, Blog&Nuvole.

L'idea è quella di unire i blogger che si dilettano a scrivere in rete, con illustratori ed artisti.

Come?
Tutti gli scrittori del web sono invitati a proporre testi inerenti cinque temi (Allo Specchio, Galleria del tempo, Oggetti anima, Onirica, Storie scalene), entro la fine di ottobre.
Da novembre partirà la seconda fase, dove gli illustratori e i fumettisti daranno vita alle parole e ai racconti.
Per ogni categoria verrà designato un vincitore, al quale... bhe, se siete interessati e volete conoscere ulteriori dettagli, vi consiglio di consultare il regolamento ;)

L'iniziativa mi piace molto (altrimenti non l'avrei segnalata) e poi il disegno è da sempre una delle mie passioni (forse sarebbe il caso di scrivere "il mio passatempo preferito, niente di più"); aspetto dunque con entusiasmo e curiosità il momento in cui potrò buttare gli occhi sui lavori finali del concorso.

Blog&Nuvole è un progetto a cura di Cristina Vannini Parenti e Lucia Saetta, realizzato in collaborazione con la Triennale di Milano e la Fondazione Cologni dei Mestieri d'Arte.

martedì 16 settembre 2008

guarda un pò l'Italia vista dall'estero

Cosa scrivono i giornali europei sulla nostra nazione? sulla nostra politica estera, interna, sui cambiamenti sociali, sulla giustizia? Ce lo dice Italia dall'estero, un sito di informazione gestito da un gruppo di ragazzi italiani che per studio o lavoro si trovano all'estero.
Ecco come si presentano tra le pagine del sito:

Siamo italiani residenti all’estero da diversi anni.
Vivendo e lavorando fuori dall’Italia vediamo il nostro Paese anche attraverso gli occhi di altre culture. Il confronto ci ha fatto scoprire un’Italia diversa da quella che conoscevamo.


E l'Italia diversa la mostrano costantemente a tutti i loro lettori, con accurate traduzioni di pezzi provenienti da più di venti paesi diversi. Navigare su Italia dall'estero è semplice, immediato; i testi sono divisi per categorie (Economia salute e ambiente, Giustizia, Personaggi d'Italia, Politica estera, Politica interna, Società cultura e religione) in modo da facilitare la consultazione tematica.
Vi lascio con le parole che mi hanno catturata e convinta:

noi vogliamo dare un piccolo spazio alla silenziosa lettura di quel che scrivono osservatori lontani e distaccati
(...)
Speriamo che questo nostro sito possa darvi un nuovo punto di vista, più ampio, creato da osservatori stranieri sul nostro paese e che possa nutrire la memoria per i tempi a venire.


Con piacere li inserisco nel blogroll ;)

giovedì 11 settembre 2008

quando il vuoto viene dal luogo

Questa mattina, via metapolis, ho avuto modo di leggere l'articolo che il New York Times ha pubblicato per la ricorrenza dell'11 settembre, A 9/11 Loss Some Can See From Their Window, Still. 

Non il solito pezzo dedicato alla commemorazione delle vittime, al terrorismo, alle azioni in corso dell'esercito americano, ma una riflessione sul vuoto che l'assenza delle Torri suscita nell'animo dei newyorkesi, privati di un pezzo importante della loro città.
Mi colpisce il taglio dell'articolo perché per una volta si punta l'arco sul panorama rubato. Non solo ferite che sanguinano nel cuore; esiste anche un senso di vuoto e mancanza che nasce e geme negli occhi.

Chi ama soffermarsi a contemplare paesaggi naturali o scorci di città, sa bene come un luogo sia in grado di estirparci sensazioni e sentimenti, di emozionarci, di accoglierci nel momento del dolore e della serena gioia.
 I luoghi permettono alla nostra anima di emergere e quando lei esce fuori si lega inscindibilmente al paesaggio che l'ha chiamata. Così come si lega al paesaggio che l'accompagna nel cammino quotidiano.

Mentre leggevo l'articolo, mi è tornato in mente un ricordo, di qualche anno fa.
Nel mio paese avevano iniziato da poco i lavori di restauro al vecchio rudere castellense. Mia madre è cresciuta in mezzo a quelle pietre, custodi di ricordi ed emozioni.
Nei giorni in cui sapeva che gli operai lavoravano presso il castello, non poteva fare a meno di rivolgere lo sguardo al picco dove sorgono le due torri e gli altri ruderi.
Mi spiegò che nonostante fosse contenta del recupero e dei lavori di qualificazione, percepiva come una stretta al cuore, una ferita, all'idea che degli estranei mettessero mano sulle "sue" pietre.
Stavano modificando il suo luogo; riportavano in vita muri e pavimenti nascosti, ma nel cuore di mia madre storpiavano un immagine abituale e rassicurante.

I luoghi in cui viviamo ci appartengono, nel ricordo e nel presente.

Così come ci appartengono i luoghi che visitiamo o che attraversiamo al nostro passaggio. Quante volte nel ripensare alle città e alle nature viste e visitate, ho avuto voglia di rivederle, per provare di nuovo le emozioni che mi avevano suscitato.

E così provo a immaginare la ferita che si apre ogni volta che un  newyorkese guarda fuori dalla finestra, quel vuoto che avverte nel paesaggio estraneo ogni volta che lo sguardo affronta Gound Zero; paesaggio incompleto quello senza le due torri... come se ad un parigino togli la Tour Eiffel, come se a Roma fai sparire il Colosseo, come se al mio paese togli il suo castello.
Si rompe un filo del legame. Una parte di noi tramonta e non risorge più.
Osservare il posto che occupavao le torri è come osservare un luogo fuori dal luogo, senza spazio e tempo non definito, astratto, inconsistente.

Penso che non potrei guardare con serenità un paesaggio straziato, se nel mio ricordo splende.


E tutto si riassume qui, nelle parole di Christine Sugrue:

“Whenever I look over there, I’m always conscious that’s something missing.”

mercoledì 3 settembre 2008

Evoluzione

Mare di TropeaSi gettò incurante dei brividi che l'assalivano ad ogni passo.
L'acqua era bassa e fredda; limpida come uno vetro liquido.

Amava nuotare, lasciarsi avvolgere dalle carezze delle onde.
Nuotare e galleggiare.
Avanzare con movimenti precisi, sicuri; poi fermarsi. E abbandonarsi alla leggerezza.

Alzò gli occhi verso il cielo ed era azzurro. L'aria profumava di vento; il vento portava con se l'odore del bergamotto, della sabbia, del sale.

Quella striscia di spiaggia era davvero incantevole, incorniciata da piante selvatiche e fiori vivaci.

Abbassò gli occhi verso l'acqua e questa era blu. Rifletteva il cielo ma ne arricchiva il colore.
Era più carico, denso e inconsistente allo stesso tempo. Era trasparente ed accecante.
Circondava il suo corpo, le mani, le dita, come a volerlo inghiottire.
Ad ogni movimento si smarriva e subito dopo si ricomponeva nella stretta.
Era proprio un colore avvolgente.

Respirò profondamente.
Guardò verso riva e dentro di sè trovò il desiderio di non tornare.

Si era abituata alla temperatura dell'acqua, ora le sembrava di cuocere in un brodo profumato di pesce, frutta, fiori e sassi. Percepiva nettamente l'odore della sua pelle, sempre più salata.

Muoveva le braccia con delicatezza, seguendo il flusso della corrente e delle lievi onde infinite. Le sue mani sembravano appartenere a quel fluido, fondersi in esso.

Persa in questa sensazione, le osservava distratta e i contorni si smarrivano.
Una strana sonnolenza pareva intorpidirla.
Forse si era rilassata troppo... tornò vigile ma continuò a guardar le mani innanzi al suo viso.
Immerse nell'acqua. Che si confondevano con l'acqua. Si scioglievano.
Limpide, trasparenti.

E non era una sciocca fantasia, davvero le sue mani si stavano comportando come terriccio sciolto in un liquido.
Si perdevano nel blu. Diventavano blu.
Come le braccia. Come le gambe. Come il resto del corpo. Come il cuore e come il cielo, l'ultima cosa che vide prima di abbassar le palpebre sul buio.

Non ebbe paura di tramutarsi in mare.
Continuò semplicemente a muoversi e dondolare.

lunedì 28 luglio 2008

voglia di mare..

Ultimamente questo blog piange.
L'ho trascurato un pochino, è vero.
Ma del resto non mi sono mai imposta una cadenza fissa, non programmo i post, non voglio essere vincolata, almeno non qui dentro.

Questo non è un blog aziendale, non devo costruirmi un immagine, non devo promuovermi, non mi sono prefissa degli scopi.

Quindi posto quando ne sento il bisogno, quando ne ho voglia, se ho qualcosa da dire, se ho il tempo di dirla.
Solo che se a mancare è lui, il tempo, passa anche la voglia.

Ho bisogno di vacanze, di tornare nella mia casa natia e nel mio paesino.
Desidero fare il bagno in mare (perché ancora, dopo 6 anni, il bagno nel mare di Rimini mi rifiuto di farlo - questa città la adoro per tanti motivi, ma il mare proprio no ed è inutile che amici e colleghi continuino a stressarmi con il solito "ma come sei bianca... ma non vai al mare?")!

Il mare che desidero è quello che sbatte sulla spiaggia selvatica della mia terra.

Se riesco, anche quest'anno farò un giro all'Isola di Dino e alla sua splendida Grotta Azzurra, dove l'acqua è turchese e la roccia attorno brilla di luce celestiale.

Il mare rilassa, pulisce, svuota. Dopo ogni bella nuotata, spossata dalla fatica, mi piace distendermi al sole e chiudere gli occhi.

In quegli istanti riesco a non pensare.

Ascolto solo l'onda che si infrange, che mi culla.
L'udito prende il sopravvento sugli altri sensi e mi ritrovo in balia dell'eterno canto del mare.

Fatico ad aggiornare il blog perché in questi giorni son troppo nostalgica.

Vi parlerei solo delle mie vecchie estati, dove tre sorelline si rincorrevano sulla spiaggia che ardeva come l'aria attorno all'Etna nei periodi di attività.
Giocavamo, ridevamo, ci inventavamo storie e le interpretavamo.
Sorrido solo a ripensarci.

Ogni anno, nell'attesa del ritorno estivo, annego sempre in queste liete nostalgie.
Ed è uno dei motivi per i quali in estate scrivo così poco.

Si annega meglio in silenzio.

mercoledì 25 giugno 2008

parole inutili

Succede, neanche troppo raramente, di incontrare parole e testi capaci di suscitare riflessioni o di mettere in moto pensieri e ricordi.
Oggi pomeriggio ho trovato questo. L'ho letto e poi riletto, l'ho meditato.
Ho interrogato me stessa sul mio rapporto con la scrittura.
Ho rivisto tutte le lettere composte per amici o persone a me care, mai inviate, mai consegnate.

Parole e messaggi incisi su fogli sparsi dopo un litigio, dopo una notte di confidenze, dopo una giornata allegra, dopo essermi scoperta innamorata, dopo incomprensioni e momenti di rabbia.

Ma i destinatari, quelle parole dedicate a loro, non le hanno mai lette.
Quegli scritti finivano inevitabilmente rinchiusi nei cassetti o raccolti tra le pagine dei taccuini.
Dimenticati mai. A volte li ho trasformati in piccoli racconti, altre volte son diventanti post di questo blog.
Altre ancora restano lì, come lettere prive di francobollo non accettate all'ufficio postale.

Amo scrivere, imprimere su carta riflessioni o ricordi.
Ma di quelle parole sono gelosa. Anzi, è proprio la consapevolezza che nessuna di quelle lettere verrà mai stretta dalle mani del destinatario a liberarmi e svincolarmi da remore o timori.
Questi scritti mi aiutano a mettere ordine tra i pensieri, a tracciare il punto della situazione, a comprendere la natura dei miei sentimenti e delle paure.
Scavo in me stessa scoprendomi all'Altro, ma in realtà per lui non sarò mai spoglia.

Eppure adesso mi sento a disagio. E' come se una vocetta nascosta si divertisse a sussurrami che il mio rapporto con la scrittura è incompleto.
Gli manca un passaggio.
Quello in cui il fiume si getta nel grande mare.
Manca la verità, il confronto, il coraggio.
Ogni dichiarazione d'amore si sente inutile se non c'è un'Amato ad ascoltarla.

Diverso è il rapporto instaurato con la scrittura quando in mezzo c'è la parola lavoro.
In quel caso è proprio la consapevolezza di essere letta a darmi la spinta necessaria.
Lo scopo è far giungere un messaggio.
Il mio compito è trovare il modo migliore per trasmetterlo.
Ciò è stimolo, è forza, è sfida.

Ma in questo istante c'è un urlo di poesie sepolte e parole svanite che mi tormenta il cuore.

Cosa accadrebbe se non ci fosse piu luce

What if there was no light
Nothing wrong, nothing right
What if there was no time
And no reason, or rhyme
What if you should decide
That you don't want me there by your side
That you don't want me there in your life





Cosa accadrebbe se non ci fosse luce?
niente di sbagliato, niente di giusto
cosa accadrebbe se non ci fosse tempo?
e nessuna ragione o rima
cosa accadrebbe se tu dovessi decidere
che non mi vuoi qui accanto a te?
che non mi vuoi qui nella tua vita?

lunedì 23 giugno 2008

L'uomo che vendeva parole - Ginevra


Qualcuno si apprestava ad entrare; oltre il vetro opaco della porta era apparsa un'ombra nera dal contorno indefinito.

L'uscio si schiuse senza rumore; una donna, occhi bassi, movenze silenziose.
Ginevra.

"Buongiorno" sussurrò con voce impercettibile "sono venuta ad acquistare la mia... scorta mensile", abbozzò un sorriso impacciato, forzato dalla circostanza.

L'uomo alzò un ciglio in segno di saluto. Con noncuranza si voltò verso l'armadio a mura, aprì un anta, e da uno dei piccolissimi e stretti cassettini situati all'interno prese una scatolina ricoperta di velluto color porpora.

"La ringrazio - ancora un sussurro, dal tono imbarazzato - sa, è sempre utile avere qualche parola di scorta... in quei casi"

Velocemente la scatolina scomparve nella borsetta e poi, senza aggiungere altro, la donna posò delle banconote su un tavolo dov'eran situate in bella vista una decina di scatoline di diversa forma e colore. Nel giro di mezzo minuto si dileguò, muovendosi silenziosa, quasi non volesse lasciar traccia del suo passaggio.

* * *

Ginevra è stata la prima cliente del negozio.

Quando lo spettegolìo sul venditore di parole era giunto al suo orecchio, senza pensarci troppo, aveva imboccato la strada che scivolando di casa in casa, dalla piazza in fondovalle, portava in cima.
Con timore aveva sospinto la porta semichiusa, era entrata, e senza guardarsi troppo attorno aveva chiesto al nuovo venuto se davvero in quel magazzino vendeva parole e se per caso disponeva anche di "parole calde".

L'uomo, senza proferir verbo, le aveva messo in mano la prima scatolina di velluto color porpora.
Non volle denaro quella prima volta.
"Si paga solo se si ritorna", aveva insistito, "ogni volta che tornerai a chiederne di nuove, pagherai per le precedenti".
Un modo strano di vendere, aveva pensato Ginevra, ma del resto tutto di quell'uomo era strano, dall'arrivo in paese alla velocità con cui aveva rimesso a nuovo il magazzino abbandonato.

Quella volta, non potrà mai scordarlo, Ginevra percorse la strada del ritorno in preda ad un frenetico batticuore, figlio dalla curiosità ricamata attorno alla misteriosa scatolina. Stringeva al petto la borsetta, aveva le guance in fiamme.

* * *

Quand'era bambina, gli abitanti del paese amavano paragonare la piccola Ginevra ad una margheritina di campo: esile, timida e molto graziosa. La sua pelle provocava invidia al bianco del latte, i capelli erano di un morbido color paglia, gli occhi caldi come le castagne.

Crescendo non diventò mai bella, ma quel suo essere semplicemente graziosa non lo perse mai. Così come non riuscì mai a scollarsi di dosso quella timidezza muta che tanto si confondeva con il disinteresse e l'apatia.

Attorno ai sedici anni, Ginevra aveva imparato a chiudere educatamente le serrande in faccia ai pochi impavidi corteggiatori che tentavano di avvicinarla. Desiderava trascorrere il tempo con se stessa. Chiuse serrande anche nei due anni successivi, e poi negli altri due, poi ancora e ancora.

A trentadue anni, infine, si mostrava agli occhi della gente come una donna di aspetto gradevole. Con il passar delle stagioni si era schiarita: la pelle diafana lasciava intravedere il delicato blu delle vene nei punti del corpo dove la pelle è meno spessa, i capelli avevano perso il tenue colore paglia mutandosi in fili d'argento, gli occhi di castagna sembravano aver assorbito i raggi del sole per riflettere il colore delle foglie autunnali.
Il suo viso però era muto e inespressivo, privo di spessore; qualsiasi emozione lei provasse risultava indecifrabile.
Parlava poco e quando apriva bocca lasciava uscire monosillabe e frasi spezzate. Non era interessante e non intratteneva conversazioni. Tutta d'un pezzo sul lavoro, sconosciuta con i familiari.
Cosa facesse del suo tempo libero, quando si sottraeva agli sguardi e alle conversazioni della piazza, nessuno lo sapeva. Nessuno conosceva il gusto del suo gelato preferito, il colore che amava di più, i nomi delle persone che le trasmettevano simpatia o antipatia.
Probabilmente la sua fortuna fu quella di non sembrare mai interessante agli occhi della gente, quindi nessuno si prendeva la briga di osservarla, seguirla, pedinarla... o semplicemente di domandarle "dove vai?" e "cosa fai?".

La verità è che la poverina non sapeva curare le relazioni, non aveva mai imparato, le temeva e ripetutamente le sfuggiva.
Trascorreva buona parte delle giornate a dipingere su tela tramonti che non completava mai. Ogni sera al sorgere del sole ne iniziava uno, il giorno dopo lo continuava sulla scia del ricordo. Ma non appena il sole si riabbassava verso il mare, una tela desiderosa di nuovi colori prendeva il posto della precedente.
Ed era sempre punto e a capo.

Poi un giorno, un uomo dalla pelle profumata apparve dal nulla.

(continua...)

giovedì 12 giugno 2008

Nonne e Ricordi

Questa mattina, sul blog della Placida Signora ho trovato la bella segnalazione di un tumblr dedicato alle nonne.
Tanti ricordi e ritratti di nonne a cura di noi nipotine e nipotini che scriviamo sul web.
Ho lasciato anche il mio e potete leggerlo qui.

Chiunque può inviare un suo contributo scrivendo una mail a marchino.64@gmail.com

martedì 10 giugno 2008

con mente libera

L'Oroscopo che Rob Brezsny ha scritto per i Gemelli, nella settimana che va dal 6 al 12 giugno, mi piace veramente tanto!

"La verità è sempre più interessante di quello che ci aspettiamo", racconta il giornalista Steven Levy. I cronisti "non dovrebbero avere gli articoli già scritti in testa. I preconcetti spesso ci nascondono la ricchezza e l'umanità delle cose reali, che siamo in grado di cogliere solo quando ascoltiamo veramente le persone e ci avviciniamo al mondo con mente libera". Il consiglio di Levy è utile anche per chi non fa il giornalista. In particolare per te, Gemelli. Dovunque andrai, in questo periodo saprai accettare lo shock salutare delle novità.

Si, c'è aria di novità in questo periodo; nuove strade si aprono dinanzi i miei occhi e il loro orizzonte mi intimorisce e incuriosisce allo stesso tempo.
Mi piace pensare che la verità che troverò sarà più interessante, ci voglio credere. E' un bell'augurio.
Voglio incamminarmi con mente libera, leggera, strappandomi di dosso le supposizioni e le congetture.

Camminerò ascoltando solo il colore del cielo cantare.

domenica 8 giugno 2008

L'uomo che vendeva parole - Intro

Il paese era piccolissimo e sorgeva su una grande roccia.
Attenzione, dovete immaginarvi un paese davvero piccolissimo, uno di quei luoghi dove tutti gli abitanti sono personalità importanti e conosciute, perennemente sulla bocca della gente: di tutti si conosce tutto, di tutti si parla, nessuno passa sottobanco, di tutti conosci l'albero genealogico per almeno quattro generazioni.
Il paese, dicevo, era piccolissimo ma tanto, tanto bello da guardare.
La grande roccia sorgeva in una valle di ulivi che declinava dolce verso il mare. Alle spalle dello spuntone, invece, una lunga fila di montagne. E lui lì, solo, sorto dal nulla, un cono di roccia posato da un invisibile architetto insoddisfatto dalle montagne e dalla pianura; no, non andavan bene per costruirci il paese che aveva immaginato.
Le case sembravan sorte dal nulla, incollate sulle ripide fiancate; le viuzze serpentine s'innalzavano orgogliose verso la cima.
E in alto, proprio sulla punta, il nostro architetto aveva livellato il terreno per posarci un castello; la rupe dominava lo spazio circostante, donargli la corona fu un dovere.

Nel piccolissimo paese ci fu un tempo in cui il castello accolse ricchi signorotti e baronetti. Oggi è completamente vuoto, decrepito, un rudere che reclama ancora il suo posto in un mondo che di castelli non ne vuole più; mi dicono però che i signorotti sono ancora ben accetti.

Ai piedi del castello vi erano spettri di case, abbandonate e semicrollate, alcune a causa dei terremoti, altre a causa della partenza delle famiglie proprietari. Il vuoto, si sa, non può sostenere muri e soffitti.
In piedi ce n'eran poche: parlo delle case dove qualcuno tornava nel periodo estivo per trascorrere dei giorni immerso nel silenzio e nella pace degli ulivi.

Una delle costruzioni situate in alto in origine fu adibita a magazzino, mai troppo utilizzata, per anni grigia e blindata. Una catapecchia dalle finestre invase di ruggine e vento.

A guardarla adesso, invece, appariva graziosa e gentile, dipinta color del grano.
Le finestre socchiuse, azzurre, odorose di vernice fresca.

* * *

Il nuovo inquilino è un uomo taciturno.
Muto ha fatto il suo ingresso nel paesino in una sera di pioggia tiepida e silenziosa; muto lo ha attraversato; muto si è recato sicuro verso la catapecchia abbandonata; muto l'ha sistemata in brevissimo tempo, senza chiedere aiuto ad una sola anima.

Poi, ha iniziato a vendere parole.

Proprio così, parole.
Sacchetti e confezioni di parole, per ogni esigenza.

La gente del paese, inizialmente, fu in preda allo stupore, esattamente come te adesso.
Se hai capito bene la natura del nostro paesino piccolissimo, potrai immaginare il chiacchiericcio feroce che insorse al suo arrivo; per i primi mesi non si fece altro che (s)parlare dell'uomo paroliere.
Ma lui sembrava ben conoscere le dinamiche che caratterizzano il chiacchiericcio dei paesi piccolissimi: li ignorò e si calmarono.
Pian piano riuscirono ad abituarsi all'idea di avere come vicino di casa un uomo che per guadagnarsi da vivere, vendeva parole.

(continua...)

giovedì 29 maggio 2008

Strade....

Succede che mentre percorri serenamente un sentiero, all'improvviso qualcuno ti chiama per indicartene un altro.
Basta un'occhiata svelta per notare come quello nuovo sia decisamente attraente.
Solo una persona poco perspicace potrebbe non coglierne il fascino, la sicurezza e il vasto orizzonte.

SentieroPerò su quello vecchio crescevano alberi di ciliegio e gli uccellini sorridevano cinguettando.
I rami frondosi proteggevano dal troppo sole, lasciando filtrare dolce brezza.
Era bello passeggiare in quella stradina, anche perché tutti i compagni di viaggio incontrati eran gioviali e affettuosi; dai pericoli del cammino e dagli sbalzi del terreno ti proteggevano con discrezione.

Ma il nuovo sentiero prometteva un vasto orizzonte.
E non servivano compagni di viaggio protettivi, perché la strada era piana e senza ostacolo alcuno.

Succede che ti ritrovi a dover scegliere se cambiare strada o restare.
Lo sai bene che ogni treno che passa va preso, che la vita è un costante mutamento e che i veri compagni di viaggio sono con te anche se ti trovi altrove.

Eppure, lasciare il sentiero degli alberi di ciliegio, è terribilmente straziante.

e il cuore si frantuma come onda sugli scogli

Tramonto d'onde sulle rocce

Come può uno scoglio
arginare il mare
anche se non voglio
torno già a volare.
Le distese azzurre
e le verdi terre.
Le discese ardite
e le risalite
su nel cielo aperto
e poi giù il deserto
e poi ancora in alto
con un grande salto.


(Io Vorrei...Non Vorrei...Ma se Vuoi - Battisti/Mogol)

giovedì 22 maggio 2008

Un anno di Blog

E' trascorso un anno da quando scrissi le prime parole in questo blog che ancora oggi amo chiamare il mio giardino.

Un anno in cui un cuore di crisalide ha provato il volo di farfalla.

Nel maggio scorso mi sembrava di attraversare una foresta scura e piena di rovi, dove ogni passo corrispondeva ad un nuovo graffio, senza dolore però, solo il sangue scendeva.

Precipitavo indolente nel cuore di questa selva incolta, speravo infine di trovarmi, di afferrarmi e obbligarmi ad una scelta. Lasciar procedere il passo o tornare indietro?
Il mio cuore traboccava di nostalgia malata verso la casa natia.
Mi sentivo in bilico, sul punto più alto di un valico. Camminavo dritta, avanti a me, mai a destra e ne a sinistra, appassivo e rifiorivo in un soffio di vento, incessantemente, non sapevo alzarmi del tutto e nemmeno cadere fino a toccare il fondo.
Procedevo attirata dal silenzio del nulla, il mio corpo ubriaco di sonno anelava ad un sogno.

Ma tutto muta col tempo. Lo so e lo sapevo.
Cambia la vita delle persone al mio fianco, cambia la mia.
Un abbraccio insicuro diventa forte come roccia, un argine si disfa, una corsa verso il mare, una partenza che oggi è un ritorno, qualcuno che affonda, qualcuno che scala montagne, chi avvizzisce, chi si innalza, chi più non si muove.
Attorno a vortici di emozione danzo e tremo, oggi come ieri e come domani.

E' stato un inverno caldo quello del 2007; caldo era il vento che soffiava e caldo il sole di gennaio, calda l'aria primaverile, scottante quella di maggio. E a maggio, ricordo, bruciavo anche io di insicurezze e paure, con i capelli aggrovigliati dalle troppe carezze e l'orecchio ad ascoltarti il cuore.

E' passato un anno da quando sono entrata in questo giardino per guardare la luna. Tu invece ci sei entrato senza volerlo: ti ho condotto qui attraverso parole nate nel cuore della notte.

Mi hai tenuto compagnia anche quando non eri presente.

Sei qui anche adesso, mentre celebro un anno di vita e colori, per sorreggermi dalle vertigini e porgermi sfumature mancanti.

giovedì 15 maggio 2008

una Notte

Dormivi.
All'improvviso il dolore ti si è piantato nel petto.
Un sobbalzo sul letto, silenzio, una tortura straziante che trafigge ancora e ancora.

Sconcertato, in preda al panico, in balia di un malore sconosciuto, con il corpo che duole improvviso e feroce, con l'angoscia che cresce perché in casa non c'è nessuno e non arrivi nemmeno al telefono... Istanti eterni trascorrono, mentre un'ombra invisibile ti schiaccia.

E' poi succede, inevitabile.

Non hai avuto il tempo di fermare il pensiero che hai già immaginato la tua morte.
Con una lucidità pazzesca, senza senso.
Li vedi il giorno dopo mentre ti cercano, provano a telefonarti, arrivano a casa tua, aprono la porta.
Immagini le reazioni di chi riceverà la notizia, per telefono, perché son tutti lontani; dove un grido, dove un silenzio, frasi di circostanza per alcuni, un dolore indicibile per altri.

Stranamente, questo pensiero, ti porta sollievo.
Si, sei giovane, la voglia di vivere non manca, ma l'idea della morte diventa accettabile finché sei sicuro che qualcuno piangerà per te.

Una fitta più profonda delle altre ti strappa via dal torpore suscitato da questo egoismo consolatorio, il dolore è sempre lì, che batte e sbatte, nel petto, nel braccio, il cuore pulsa così velocemente che lo senti materialmente infilato nella gola.
E' insopportabile.
Trovi la forza.
Arrivi al telefono e chiami.

mercoledì 23 aprile 2008

Le posso dire Grazie?

Quanto
sono irritanti quei passeggeri che all'improvviso urlano "Dietrooo"?
Nel momento in cui l'autobus si era fermato, l'autista ha aperto la porta anteriore per far salire, la porta centrale per far scendere. Quella in fondo all'autobus è rimasta chiusa, non per capriccio o dimenticanza, ma semplicemente perché nessuna delle persone sedute in fondo ha spinto il pulsante rosso che "chiama" la fermata.
Quelli del centro han suonato. Quelli seduti indietro no.
E adesso c'è un tizio che urla "Dietrooo", proprio quando l'autobus sta per ripartire; ha un accento slavo per giunta.
No, diamine, qui dentro non urla nessuno e soprattutto nessuno avanza pretese senza prima chiedere come si deve, non sono il servo di nessuno io, men che meno di uno straniero!
Questo pensiero deve aver attraversato in un lampo la mente dell'autista perché allo scoppio del "Dietrooo" lo vedo voltarsi con un ghigno cagnesco e sento urlare: CHE CAZZO VUOI? SE VUOI CHE TI APRO DIETRO DEVI SUONARE!!"
Mi volto, in fondo c'è un uomo e una donna con un bimbo in carrozzina.
Muti.
Era lei che doveva scendere, lui ne ha solo notato la difficoltà a muoversi agilmente.
Lei non ha strillato, ma probabilmente dev'esserle passata un espressione di sconforto sul viso e la voce dell'uomo si è sguinzagliata al suo posto senza troppi freni.
Un graffio feroce all'orgoglio è ciò che provoca la vista dei due passeggeri all'autista; nervoso e imbarazzato si gira in avanti, apre la porta chiusa, poi si abbandona ad un nuovo urlo: "IO NON POSSO SOGNARMI QUANDO DOVETE SCENDERE E DA DOVE! DOVETE SUONARE!"
L'uomo aiuta la donna a scendere. Poi siede. La porta posteriore si richiude.
Stiamo per ripartire, ma la voce slava si alza di nuovo... "Grazie".

Vale
quanto e più di un uomo la giovane donna che sale sull'autobus con bimbo in carrozzina e due sportine della spesa belle piene.
Quando l'autobus le si ferma dinanzi, stringe la plastica tagliente delle sportine, si appoggia alla carrozzina tirandola all'indietro affinché le ruote anteriori si alzino, appoggia queste ultime sull'autobus e poi la solleva con forza entrando trionfante sul mezzo di trasporto arancione.
Posiziona la carrozzina accanto ad un sedile e si siede anche lei.
Una fermata, due, poi tre. All'improvviso la mamma salta su e a voce strozzata sibila alto un "si fermi". Era distratta, troppo tardi ha riconosciuto la fermata.
Ma ecco la voce burbera del conducente: "la faccio scendere, si tenga pronta".
Non c'è molto traffico, la strada tranquilla.
L'autobus si ferma di fonte ad un marciapiede un po alto, la donna sorride e regala un "Grazie, grazie mille" che risuona di gioia.
La stessa voce dello stesso conducente, non più burbera, consiglia: "stia attenta, c'è il maciapiede".
La donna scende, senza problemi. Vale quanto e più di un uomo nel maneggiare carrozzina e sportine pesanti.
Dopo qualche minuto l'autobus giunge ad una nuova fermata. Sale un po di gente.
Una voce gentile d'autista dice "buongiorno".

Un
po malferma sulle gambe ma vivace nel viso.
Si alza e si dirige alla porta centrale dell'autobus; fortuna che la strada è dritta e il conducente delicato nella guida.
"mi scusi - strilla la signora con voce roca, malferma quasi quanto le gambe - per la Posta devo scendere alla prossima?"
Il ragazzo che tiene il volante in mano getta un'occhiata furtiva all'anziana donna attraverso lo specchietto. Poi volge lo sguardo in avanti, sta per accennare una risposta quando la signora strilla nuovamente con tono lamentoso "non so dove scendere e non posso camminare molto! ".
Il ragazzo tace. La signora tace. Tutto tace, tranne il rumore portentoso del mezzo in velocità.
Ma ecco l'autista che accosta.
"Scenda adesso Signora - tono affettuoso, voce gentile - la Posta è qua di fronte", si ferma.
Veloci si aprono le porte, lei si accinge a scendere come meglio può, ma prima di varcare la porta, si volta verso il ragazzo alla guida e "Le posso dire Grazie, giovane? E' stato molto buono, le auguro un ottima giornata".
Mi stupisce la sua fierezza nel pronunciare queste parole. Non più implorante, senza strilli, ma ferma e colma di una riconoscenza vera.
Un piccolo gesto. Un augurio sincero.

Grazie
per l'inaspettata, piccola lezione che pochi minuti d'autobus mi regalano al mattino.

venerdì 18 aprile 2008

Tuffarsi nella bella Rimini

rimini manifesti balneariAncora freddo.
Ieri il sole caldo splendeva nel cielo. Oggi ha dominato il gelo.
Pazienza, un maglione in più e tutto passa.
Il principio della bella stagione, tuttavia, ha già portato con se i primi turisti: aspiranti bagnanti pieni di soldi e speranze (adesso? ma l'acqua è gelida! - Ebbene si, adesso!).
Sarà che nel loro Paese d'origine il freddo è più freddo, però non capirò mai come in questo periodo pretendano di andare al mare, che certo, è tanto bello da vedere, ma non così caldo da suscitare voglia di immersioni. Pazienza anche qui, ognuno segua i propri desideri.

Ma mentre riflettevo vagamente sul masochismo del turismo primaverile, questa mattina mi sono imbattuta nel nuovo manifesto balneare della città di Rimini. Troneggiava felice accanto ai volti distratti di uomini politici; quella grande R rossa non cattura lo sguardo, lo pretende.

Sono trascorsi un bel po di anni da quando l'amministrazione comunale di Rimini ha riesumato questa antica tradizione. Ogni anno commissiona un nuovo cartellone pubblicitario della stagione turistica; nella realizzazione coinvolge artisti locali e grandi nomi della Riviera. Da Gruau a Toccafondo, da Manara a Jovanotti, da Giovagnoli ad Echaurren. Nel 2008 è il turno di Morosini, un giovane grafico autore della raccolta "Dividirimini", libro fotografico dedicato ai bagnini.

Più tardi, cercando dettagli sulla storia del nuovo manifesto, googlando googlando, ecco la bella sorpresa della giornata: Balnea Musem - il museo virtuale dei bagni di mare e del turismo balneare.

Un sito/museo dedicato alla storia del turismo balneare!

Me ne sono innamorata al primo sguardo, tuffandomi senza esitazione tra fotografie, cartoline, manifesti, storie.

Ho ritrovato tutto il calore dei sogni che adornavano la bella Rimini, il mito della Riviera, del Grand Hotel, di Amarcord.

Ho visitato le stanze delle cartoline d'epoca, la spiaggia vista da Fellini i bagni del Duce e tanto altro ancora: infine, la storia e i manifesti balneari che cercavo, tradizione antica, come accennavo, ripresa negli anni novanta.

E' stato un bel viaggio, tra bagnini e bagnanti, tra luoghi conosciuti, volti anonimi e sorrisi pieni di salsedine.

L'estate non è ancora arrivata ed è decisamente presto per concedersi un bagno a mare.

Però un tuffo in quasi due secoli di storia, val la pena.

martedì 15 aprile 2008

Destra Sinistra - di Giorgio Gaber



Tutti noi ce la prendiamo con la storia
Ma io dico che la colpa è nostra,
è evidente che la gente è poco seria
Quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra
Far la doccia invece è di sinistra,
Un pacchetto di Marlboro è di destra
Di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra
Il minestrone è sempre di sinistra,
Tutti i film che fanno oggi son di destra
Se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis
Hanno ancora un gusto un po' di destra,
Ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra
Con la giacca vanno verso destra,
Il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un pò di destra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze e' più che mai di destra
la pisciata in compagnia e' di sinistra
il cesso e' sempre in fondo a destra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra,
Mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
Son di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia
Malgrado tutto credo ancora che ci sia,
è la passione, l'ossessione della tua diversità
Che al momento dove è andata non si sa
Dove non si sa
Dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra
La mortadella è di sinistra,
Se la cioccolata svizzera è di destra
La nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra
Ora è buono anche per la sinistra
Non si sa se la fortuna sia di destra
Ma la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra,
Quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia
Non so se è un mito del passato o un'isteria,
è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché
Con la scusa di un contrasto che non c'è
Se c'è chissà dov'è
Se c'è chissà dov'è.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
La mancanza di morale è a destra
Anche il Papa ultimamente è un pò a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra
Con un lieve cedimento a destra
Son sicuro che il bastardo è di sinistra
Il figlio di puttana è a destra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra
Riservata è già un po' più di destra,
Ma un figone resta sempre un'attrazione
Che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia
Ma io dico che la colpa è nostra,
è evidente che la gente è poco seria
Quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra...

Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!

venerdì 4 aprile 2008

BookMooch: da oggi Scambio Libri


Il web è bello perché ogni click conduce ad una nuova scoperta.
Questa mattina l'ennesima prova: una ricerca su Google, due-tre pagine consultate, seguo un link, poi un altro, ed ecco BookMooch, un piccolo mondo che non ti aspetti.

Di cosa si tratta?
BookMooch è una comunità virtuale per lo scambio di libri usati.

Possiedi un libro che non ti serve più? Negli scaffali della tua libreria ci sono tomi e volumi che occupano spazio ma verso i quali non nutri interesse?
Con BookMooch puoi scambiarli con i libri che desideri e che ancora non possiedi.

Ecco come funziona:
- vi iscrivete (gratuitamente)
- inserite i libri che desiderate scambiare e ottenete dei punti; altri punti li otterrete ogni volta che invierete un libro
- i punti ottenuti vi servono per richiedere i libri desiderati agli altri utenti.
Ulteriori notizie sul sistema dei punti le trovate sul sito, facile e abbastanza gradevole da sfogliare.

Costi da sostenere?
Soltanto uno, quello relativo all'invio del libro.
Tuttavia, in fase di registrazione, potrete indicare se siete disponibili ad inviare i libri in tutte le nazioni del mondo, se preferite inviarli solo nella vostra, o se preferite decidere di caso in caso.

Trovo che l'idea di usare il web per incentivare lo scambio di libri sia buona, e BookMooch mi sembra un bel servizio. Certo, per funzionare bene occorre che il numero di iscritti sia ampio e soprattutto, che gli utenti mettano a disposizione dei libri.. è per questo che dedico questo post alla comunità dello scambio-libro, auspicando una biblioteca virtuale sempre più ricca.

Attualmente il catalogo italiano di BookMooch contiene 858 libri (contro i 186.374 in lingua inglese, senza considerare le altre lingue e Paesi)

Se desiderate altre informazioni o sfogliare i titoli disponibili, non vi resta che fare un giro su it.bookmooch.com

giovedì 3 aprile 2008

Liberiamo il Tempo

Questa sera ho ascoltato parole che descrivevano i vantaggi dell'organizzazione, in azienda.


Pensa ciò che devi fare
Scrivi ciò che devi fare
Scrivi ciò che hai fatto
Poi verifica gli scostamenti e riparti, verso il tuo obbiettivo.

Padroneggiare il tempo, distribuire i compiti, stabilire le priorità.

Ma non di solo lavoro viviamo.
Quando la sera chiudo alle mie spalle la porta dell'ufficio, veloce lo sguardo mi sfugge nel punto dove tramonta il sole; mi immergo nel rosa pungente e nei fasci dorati che squartano le nuvole.

Il giorno finisce, io inizio la vita.

Una vita di gesti ripetuti e pensieri monotoni: prendo l'autobus, comprerò il pane, cucinerò la mia cena, la consumerò in silenzio, accenderò il computer in camera per altre ore di ticchettio, tasti, mouse, schermo.

Organizzare il tempo di lavoro in ufficio è più facile di quel che si crede.
Ma saper riempire la nostra Scatola del tempo al di fuori, non lo è affatto.

* * *

Questa sera ho ascoltato parole asserire che il Tempo Libero non esiste.

Mentre esiste il Tempo Liberato.

Come esiste il tempo delle relazioni, del riposo, della lettura, della musica, della riflessione.

Tasselli importanti che non dobbiamo scordare e che anzi, si vestono di massima priorità nel momento in cui ci scopriamo ad anelare ad una Vita gustosa.

Riconoscere l'essenziale e il necessario: inserirli al sicuro nella Scatola.
Riservare le ore e le mezzore, o i cinque minuti, a ciascuna azione o incontro, in base all'importanza.

E poi, liberare un angolino per ciò che ci piace fare, per come ci piace essere.

Per noi e basta, per me.

Si, me lo voglio regalare questo Tempo Liberato, ne avverto l'essenzialità.

E imparerò a consumarlo, a raschiare il fondo delle dosi giornaliere; lo renderò irrinunciabile, lasciandomi annegare nel diletto del mio oblio.



giovedì 27 marzo 2008

La Freccia del Sud

Gli sguardi si incrociano mentre abbozziamo sorrisi coraggiosi.
Ci sosteniamo a vicenda, fraternamente; siamo membra dello stesso corpo.
Incomincia la notte d'appartenenza ad un treno che assorbe i nostri odori, i sudori, le nostre lacrime nascoste, la polvere delle scarpe e la terra appiccicata alle ruote delle valigie. Assorbe noi e quelli che son passati prima di noi.
Domani accoglierà con immutato e nauseabondo odore altri esuli di ritorno.

Il suo nome è Freccia del Sud.
Da sempre, chi viaggia sulla Freccia ama designare l'avanzata notturna come il "Viaggio della Speranza".
E' un epiteto che ci riempie di forza, vigore e allo stesso tempo ci angustia il cuore.

Siamo qui, che ci osserviamo prima di proferir parola.
Siamo compagni: condividiamo lo stesso senso di smarrimento, ogni fine giornata, nel momento che precede l'abbandono tra le braccia del sonno e rammentiamo di trovarci in terra straniera. Conosciamo bene anche quella sgradevolezza mattutina che ci assale nel risvegliarci tra mura silenziose, senza che dalla cucina, dal soggiorno o dal giardino, provenga il gorgoglio di voci germogliate da carne e sangue uguale al nostro.

Ci osserviamo distrattamente complici. E' un tempo fermo, lo sappiamo bene; il treno trascina i nostri corpi stanchi, alcune facce inebetite si riflettono sui vetri.

I minuti che passano dal momento in cui si termina di sistemare i bagagli pesanti, negli spazi riservati all'interno degli scompartimenti o più alla buona fuori nel corridoio, fino all'istante in cui qualcuno decide che è giunta ora di far chiacchiera, sembrano eterni e interminabili; ma appena scoppia il chiacchiericcio scompaiono dalle nostre menti, come se non li avessimo mai vissuti, come se in fondo quel tirare il fiato e guardarci attorno ci fosse servito per ricaricare la linfa e rifiorire, per assorbire l'odore emanato dai sedili e farlo nostro, per sentirci a casa, per mischiarci con la polvere ed il colore verde-bluastro dei rivestimenti che ci circondano.

E si raccontan storie, apriamo i cuori e svisceriamo i segreti, chi siamo e dove andiamo, da dove veniamo e chi stiamo correndo ad abbracciare.
Hai lasciato due figli, la fidanzata, la mamma o il vecchio nonno, sei un soldato, lavori, studi, i soldi dello stipendio non arrivano a fine mese, prima di trovar casa su al nord hai dormito come uno zingaro nella tua macchina o nei pressi di qualche stazione d'autobus; sembrano storie di altri tempi, sono le nostre, uguali e diverse.

E c'è chi prende la sopressata calabrese, con quel profumo invadente e pungente di peperoncino, dipinta di un rosso così splendente da far invidia al più bel tramonto sul Tirreno; intanto prendi anche il vino, i bicchieri di plastica non mancano mai, volete un panino? C'è sempre da banchettare sulla Freccia del Sud.


Poi tutto si quieta. Pian piano.
Si scivola in un silenzio che ha il sapore impalpabile dell'irreale. Chiudiamo la luce. Si scosta la tenda che da sul corridoio.

La nostra Freccia scivola veloce su un binario che è dritto e liscio come l'olio.
Stiamo tornando a casa.
Il pensiero si concretizza per un attimo nella mente e avverto che la parola "casa" brucia, come un fuoco, e sfiora il limitar delle ciglia umidificandole con il contatto.

Fuori dal finestrino splende una luna immensa, così luminosa da ferir lo sguardo.
E io guardo quella distesa di terre e campi che mi lascio alle spalle ogni secondo che passa, bagnata da latte lunare che tutto ricopre con la trasparenza di un velo.

Questa notte non è nera.
Siamo immersi in una magia di blu, siamo come un pesce che si abbandona alla corrente di un mare senz'acqua.

E sento i miei occhi tirar giù le palpebre, come han già fatto tutti i miei compagni. Al risveglio il mio sguardo si getterà sull'orizzonte e vedrò la mia terra, mio amato sud, disteso sotto un'alba rosea e oro, abbracciato dal turchese Mediterraneo.
Mi sembrerà di svegliarmi dopo un lungo sonno, il cuore batterà la parola "casa" una, dieci, milioni di volte; e io conserverò il ricordo di questo viaggio come fosse un sogno,
evanescente,
inafferrabile,
mio.

mercoledì 26 marzo 2008

Iris

Iris

solo per ricordarmi che ti devo un altro Grazie...

giovedì 20 marzo 2008

I Luoghi del Dolore

luoghi del doloreLe passo lentamente davanti, guardandola. I suoi occhi si fissano su di me, ma non sembra vedermi; ha l'aria di non riconoscersi nella sua angoscia. Faccio qualche passo. Mi volto...
Sì, è lei, è Lucia. Ma trasfigurata, fuori di sé, soffrendo con una folle generosità. La invidio. Sta lì, ritta, a braccia aperte, come se attendesse le stimmate; apre la bocca, soffoca
. Ho l'impressione che i muri siano diventati più alti, ai due lati della strada, e che si siano ravvicinati, ch'ella si trovi in fondo a un pozzo. Aspetto qualche istante: ho paura ch'ella possa cader giù, rigida; è troppo gracile per poter sopportare questo dolore eccezionale. Ma non si muove, sembra mineralizzata come tutto ciò che la circonda. Per un istante mi domando se non mi sia sbagliato sul suo conto, se non sia questa che mi vien rivelata d'un tratto la sua vera natura. Lucia emette un piccolo gemito. Porta la mano alla gola aprendo due grandi occhi stupiti. No, non è in se stessa che attinge la forza di tanto soffrire. Le vien dal fuori... è questo viale. Bisognerebbe prenderla per le spalle e condurla alla luce, in mezzo alla gente, nelle strade dolci e rosee: là non si può soffrire così forte; ella s'ammorbidirebbe, ritroverebbe la sua aria positiva ed il livello ordinario delle sue sofferenze. Le volgo le spalle. Dopo tutto lei è fortunata. Io sono calmo da tre anni a questa parte. Queste solitudini tragiche non possono più darmi nulla se non un pò di purezza e vuoto. Me ne vado. (La Nausea, Jean-Paul Sartre)

Ci sono luoghi che liberano la nostra anima dall'inquietudine, rasserenano il cuore e lo sguardo. Altri luoghi distraggono la mente dagli affanni quotidiani, regalano un sorriso e lo stupore.

E poi ci sono quelli che invece ci trascinano in basso. Dove il nostro buio ci travolge e il corpo si abbandona senza freni al male dello spirito.

Luoghi in cui non ci vediamo, non ci sentiamo, non ci tocchiamo, non siamo.
In cui ci scopriamo ad immergere le braccia nella cloaca, per afferrare quella forza misteriosa che non conosce né vergogna e né contegno.

Sono i luoghi in cui conquistiamo la forza per soffrire.
Perché non sono illuminati, perché sono sperduti o insoliti, perché hanno il profumo giusto, il silenzio perfetto, il rumore che ci piace. Perché sono desolati o brulicanti di persone.

Io non conosco ancora le sembianze del mio Luogo del Dolore.
Non l'ho trovato. Forse non l'ho saputo cercare. O non l'ho cercato abbastanza.

E mi manca.

Per trovarlo non esistono indicazioni, solo istinto. E' un luogo dimenticato da tutti gli altri, viene attraversato o intravisto senza considerazione. Aspetta me, nel momento giusto.
Come il viale in cui si trovano i due personaggi del testo in alto. Un viale dove il freddo e la notte sono puri. Dove si può soffrire forte.

Ho bisogno di estirpare questa rabbia che giorno dopo giorno mi trasforma in quella che non voglio essere.

Voglio vivere il mio dolore eccezionale, purificarmi nel mio deserto e urlare senza più voce.


Poi, dopo, risorgere.


A nuova primavera.





mercoledì 5 marzo 2008

Sull'autobus...

E' da qualche mese ormai che la mattina prendo l'autobus per recarmi al lavoro.
Non ho l'abbonamento annuale, né quello mensile, né tantomeno il settimanale.
Solitamente acquisto il biglietto prima di salire a bordo, presso l'edicola più vicina a casa.
Alcune volte ho comprato il carnet di dieci biglietti, in modo da non dovermi scomodare ogni volta, almeno per qualche giorno.

E poi arriva un lunedì mattina in cui non mi ritrovo nessun biglietto in tasca, senza contare che da casa stavo uscendo in ritardo, quindi niente edicola, pazienza, mi dico, lo comprerò a bordo anche se mi costa 0,50 cent in più.
Peccato solo che dopo due minuti rimango a bocca aperta di fronte alla conducente, una signora bionda dallo sguardo materno, che afferma dispiaciuta: "non li ho, li ho finiti ieri a fine servizio e non li ho ancora acquistati".
Lì per lì non sò cosa dirle..nel tragitto che collega casa mia all'ufficio salgono spesso dei controllori (in particolare proprio il lunedì), una multa non mi va proprio di prenderla, l'autobus riparte ma io già pensavo di scendere alla fermata seguente, quando la signora conducente domanda ad alta voce: "c'è qualcuno qua dentro che ha un biglietto in più e può rivenderlo a questa ragazza?"
Speranza lieve.
Subito infranta da un'onda di sguardi freddi, gelidi e taglienti, scandalizzati, accusatori, della serie "è salita senza biglietto, cavoli suoi, magari voleva pure la furba, non gli venderei un biglietto nemmeno se ne avessi altri venti in tasca".

Pazienza.
L'autobus si avvicina alla nuova fermata, sorrido benevolmente alla conducente e mi appresto a scendere.
"Aspetta, ti dò il mio".



E' un ragazzo dalla pelle lievemente scusa, dai tratti somatici stranieri.
Mi porge un biglietto un pò sgualcito, come fosse stato stretto lungamente in mano.
Tento di dargli i soldi corrispondenti al prezzo, ma non li vuole.
Insiste con forza, non mi permette di pagarlo.

Ringrazio, timbro, mi siedo.

E guardo quel biglietto. Che sembra raccontarmi la storia di un ragazzo che forse i biglietti non li timbra mai. Che sale sull'autobus e siede in avanti, tentando di scorgere ad ogni nuova fermata la sagoma di un'eventuale controllore, per convalidare quel pezzo di carta in tempo, prima che le macchinette vengano disabilitate dal conducente. Altrimenti prosegue il suo viaggio gratis.
Mi racconta la storia di un ragazzo che ha stretto quel biglietto in mano per molti giorni, si vede dalle pieghe della carta, in corrispondenza delle quali il colore giallo limone è andato quasi via, lasciando il posto ad un reticolato bianco. Anche le scritte rosse e nere sembrano sbiadite. Forse a causa del sudore della mano. Un biglietto compagno di più viaggi, a differenza mia che ad ogni corsa d'autobus ne getto via uno.

Ho come la sensazione che non mi abbia permesso di pagarlo perché lui in fondo, quella stessa corsa d'autobus, la stava attraversando "gratuitamente".
Io invece avevo chiesto di pagare e in alternativa rinunciavo al servizio.
Quel ragazzo mi ha permesso di proseguire il mio viaggio tranquilla.
Sarà lui a scendere non appena la figurina nera si staglierà all'orizzonte della strada. O forse non farà in tempo perché questa volta non la riconoscerà, e si prenderà una multa, lui, che con quell'unico biglietto aveva percorso molte strade.

Lo sò bene, sono fantasie. Divagazioni. Ma il suo sguardo, nell'offrirmi quel biglietto, era tenero, colpevole, umile, basso. E durante il resto del tragitto ha continuato a guardare fisso la strada avanti a sè, con attenzione, come fosse un animale in procinto di fiutare il pericolo.
Ma sono fantasie.
Ciò che resta davvero è il suo gesto.

Inaspettato.

Grazie.

Perché anche i piccoli gesti meritano due parole.