mercoledì 25 giugno 2008

parole inutili

Succede, neanche troppo raramente, di incontrare parole e testi capaci di suscitare riflessioni o di mettere in moto pensieri e ricordi.
Oggi pomeriggio ho trovato questo. L'ho letto e poi riletto, l'ho meditato.
Ho interrogato me stessa sul mio rapporto con la scrittura.
Ho rivisto tutte le lettere composte per amici o persone a me care, mai inviate, mai consegnate.

Parole e messaggi incisi su fogli sparsi dopo un litigio, dopo una notte di confidenze, dopo una giornata allegra, dopo essermi scoperta innamorata, dopo incomprensioni e momenti di rabbia.

Ma i destinatari, quelle parole dedicate a loro, non le hanno mai lette.
Quegli scritti finivano inevitabilmente rinchiusi nei cassetti o raccolti tra le pagine dei taccuini.
Dimenticati mai. A volte li ho trasformati in piccoli racconti, altre volte son diventanti post di questo blog.
Altre ancora restano lì, come lettere prive di francobollo non accettate all'ufficio postale.

Amo scrivere, imprimere su carta riflessioni o ricordi.
Ma di quelle parole sono gelosa. Anzi, è proprio la consapevolezza che nessuna di quelle lettere verrà mai stretta dalle mani del destinatario a liberarmi e svincolarmi da remore o timori.
Questi scritti mi aiutano a mettere ordine tra i pensieri, a tracciare il punto della situazione, a comprendere la natura dei miei sentimenti e delle paure.
Scavo in me stessa scoprendomi all'Altro, ma in realtà per lui non sarò mai spoglia.

Eppure adesso mi sento a disagio. E' come se una vocetta nascosta si divertisse a sussurrami che il mio rapporto con la scrittura è incompleto.
Gli manca un passaggio.
Quello in cui il fiume si getta nel grande mare.
Manca la verità, il confronto, il coraggio.
Ogni dichiarazione d'amore si sente inutile se non c'è un'Amato ad ascoltarla.

Diverso è il rapporto instaurato con la scrittura quando in mezzo c'è la parola lavoro.
In quel caso è proprio la consapevolezza di essere letta a darmi la spinta necessaria.
Lo scopo è far giungere un messaggio.
Il mio compito è trovare il modo migliore per trasmetterlo.
Ciò è stimolo, è forza, è sfida.

Ma in questo istante c'è un urlo di poesie sepolte e parole svanite che mi tormenta il cuore.

Cosa accadrebbe se non ci fosse piu luce

What if there was no light
Nothing wrong, nothing right
What if there was no time
And no reason, or rhyme
What if you should decide
That you don't want me there by your side
That you don't want me there in your life





Cosa accadrebbe se non ci fosse luce?
niente di sbagliato, niente di giusto
cosa accadrebbe se non ci fosse tempo?
e nessuna ragione o rima
cosa accadrebbe se tu dovessi decidere
che non mi vuoi qui accanto a te?
che non mi vuoi qui nella tua vita?

lunedì 23 giugno 2008

L'uomo che vendeva parole - Ginevra


Qualcuno si apprestava ad entrare; oltre il vetro opaco della porta era apparsa un'ombra nera dal contorno indefinito.

L'uscio si schiuse senza rumore; una donna, occhi bassi, movenze silenziose.
Ginevra.

"Buongiorno" sussurrò con voce impercettibile "sono venuta ad acquistare la mia... scorta mensile", abbozzò un sorriso impacciato, forzato dalla circostanza.

L'uomo alzò un ciglio in segno di saluto. Con noncuranza si voltò verso l'armadio a mura, aprì un anta, e da uno dei piccolissimi e stretti cassettini situati all'interno prese una scatolina ricoperta di velluto color porpora.

"La ringrazio - ancora un sussurro, dal tono imbarazzato - sa, è sempre utile avere qualche parola di scorta... in quei casi"

Velocemente la scatolina scomparve nella borsetta e poi, senza aggiungere altro, la donna posò delle banconote su un tavolo dov'eran situate in bella vista una decina di scatoline di diversa forma e colore. Nel giro di mezzo minuto si dileguò, muovendosi silenziosa, quasi non volesse lasciar traccia del suo passaggio.

* * *

Ginevra è stata la prima cliente del negozio.

Quando lo spettegolìo sul venditore di parole era giunto al suo orecchio, senza pensarci troppo, aveva imboccato la strada che scivolando di casa in casa, dalla piazza in fondovalle, portava in cima.
Con timore aveva sospinto la porta semichiusa, era entrata, e senza guardarsi troppo attorno aveva chiesto al nuovo venuto se davvero in quel magazzino vendeva parole e se per caso disponeva anche di "parole calde".

L'uomo, senza proferir verbo, le aveva messo in mano la prima scatolina di velluto color porpora.
Non volle denaro quella prima volta.
"Si paga solo se si ritorna", aveva insistito, "ogni volta che tornerai a chiederne di nuove, pagherai per le precedenti".
Un modo strano di vendere, aveva pensato Ginevra, ma del resto tutto di quell'uomo era strano, dall'arrivo in paese alla velocità con cui aveva rimesso a nuovo il magazzino abbandonato.

Quella volta, non potrà mai scordarlo, Ginevra percorse la strada del ritorno in preda ad un frenetico batticuore, figlio dalla curiosità ricamata attorno alla misteriosa scatolina. Stringeva al petto la borsetta, aveva le guance in fiamme.

* * *

Quand'era bambina, gli abitanti del paese amavano paragonare la piccola Ginevra ad una margheritina di campo: esile, timida e molto graziosa. La sua pelle provocava invidia al bianco del latte, i capelli erano di un morbido color paglia, gli occhi caldi come le castagne.

Crescendo non diventò mai bella, ma quel suo essere semplicemente graziosa non lo perse mai. Così come non riuscì mai a scollarsi di dosso quella timidezza muta che tanto si confondeva con il disinteresse e l'apatia.

Attorno ai sedici anni, Ginevra aveva imparato a chiudere educatamente le serrande in faccia ai pochi impavidi corteggiatori che tentavano di avvicinarla. Desiderava trascorrere il tempo con se stessa. Chiuse serrande anche nei due anni successivi, e poi negli altri due, poi ancora e ancora.

A trentadue anni, infine, si mostrava agli occhi della gente come una donna di aspetto gradevole. Con il passar delle stagioni si era schiarita: la pelle diafana lasciava intravedere il delicato blu delle vene nei punti del corpo dove la pelle è meno spessa, i capelli avevano perso il tenue colore paglia mutandosi in fili d'argento, gli occhi di castagna sembravano aver assorbito i raggi del sole per riflettere il colore delle foglie autunnali.
Il suo viso però era muto e inespressivo, privo di spessore; qualsiasi emozione lei provasse risultava indecifrabile.
Parlava poco e quando apriva bocca lasciava uscire monosillabe e frasi spezzate. Non era interessante e non intratteneva conversazioni. Tutta d'un pezzo sul lavoro, sconosciuta con i familiari.
Cosa facesse del suo tempo libero, quando si sottraeva agli sguardi e alle conversazioni della piazza, nessuno lo sapeva. Nessuno conosceva il gusto del suo gelato preferito, il colore che amava di più, i nomi delle persone che le trasmettevano simpatia o antipatia.
Probabilmente la sua fortuna fu quella di non sembrare mai interessante agli occhi della gente, quindi nessuno si prendeva la briga di osservarla, seguirla, pedinarla... o semplicemente di domandarle "dove vai?" e "cosa fai?".

La verità è che la poverina non sapeva curare le relazioni, non aveva mai imparato, le temeva e ripetutamente le sfuggiva.
Trascorreva buona parte delle giornate a dipingere su tela tramonti che non completava mai. Ogni sera al sorgere del sole ne iniziava uno, il giorno dopo lo continuava sulla scia del ricordo. Ma non appena il sole si riabbassava verso il mare, una tela desiderosa di nuovi colori prendeva il posto della precedente.
Ed era sempre punto e a capo.

Poi un giorno, un uomo dalla pelle profumata apparve dal nulla.

(continua...)

giovedì 12 giugno 2008

Nonne e Ricordi

Questa mattina, sul blog della Placida Signora ho trovato la bella segnalazione di un tumblr dedicato alle nonne.
Tanti ricordi e ritratti di nonne a cura di noi nipotine e nipotini che scriviamo sul web.
Ho lasciato anche il mio e potete leggerlo qui.

Chiunque può inviare un suo contributo scrivendo una mail a marchino.64@gmail.com

martedì 10 giugno 2008

con mente libera

L'Oroscopo che Rob Brezsny ha scritto per i Gemelli, nella settimana che va dal 6 al 12 giugno, mi piace veramente tanto!

"La verità è sempre più interessante di quello che ci aspettiamo", racconta il giornalista Steven Levy. I cronisti "non dovrebbero avere gli articoli già scritti in testa. I preconcetti spesso ci nascondono la ricchezza e l'umanità delle cose reali, che siamo in grado di cogliere solo quando ascoltiamo veramente le persone e ci avviciniamo al mondo con mente libera". Il consiglio di Levy è utile anche per chi non fa il giornalista. In particolare per te, Gemelli. Dovunque andrai, in questo periodo saprai accettare lo shock salutare delle novità.

Si, c'è aria di novità in questo periodo; nuove strade si aprono dinanzi i miei occhi e il loro orizzonte mi intimorisce e incuriosisce allo stesso tempo.
Mi piace pensare che la verità che troverò sarà più interessante, ci voglio credere. E' un bell'augurio.
Voglio incamminarmi con mente libera, leggera, strappandomi di dosso le supposizioni e le congetture.

Camminerò ascoltando solo il colore del cielo cantare.

domenica 8 giugno 2008

L'uomo che vendeva parole - Intro

Il paese era piccolissimo e sorgeva su una grande roccia.
Attenzione, dovete immaginarvi un paese davvero piccolissimo, uno di quei luoghi dove tutti gli abitanti sono personalità importanti e conosciute, perennemente sulla bocca della gente: di tutti si conosce tutto, di tutti si parla, nessuno passa sottobanco, di tutti conosci l'albero genealogico per almeno quattro generazioni.
Il paese, dicevo, era piccolissimo ma tanto, tanto bello da guardare.
La grande roccia sorgeva in una valle di ulivi che declinava dolce verso il mare. Alle spalle dello spuntone, invece, una lunga fila di montagne. E lui lì, solo, sorto dal nulla, un cono di roccia posato da un invisibile architetto insoddisfatto dalle montagne e dalla pianura; no, non andavan bene per costruirci il paese che aveva immaginato.
Le case sembravan sorte dal nulla, incollate sulle ripide fiancate; le viuzze serpentine s'innalzavano orgogliose verso la cima.
E in alto, proprio sulla punta, il nostro architetto aveva livellato il terreno per posarci un castello; la rupe dominava lo spazio circostante, donargli la corona fu un dovere.

Nel piccolissimo paese ci fu un tempo in cui il castello accolse ricchi signorotti e baronetti. Oggi è completamente vuoto, decrepito, un rudere che reclama ancora il suo posto in un mondo che di castelli non ne vuole più; mi dicono però che i signorotti sono ancora ben accetti.

Ai piedi del castello vi erano spettri di case, abbandonate e semicrollate, alcune a causa dei terremoti, altre a causa della partenza delle famiglie proprietari. Il vuoto, si sa, non può sostenere muri e soffitti.
In piedi ce n'eran poche: parlo delle case dove qualcuno tornava nel periodo estivo per trascorrere dei giorni immerso nel silenzio e nella pace degli ulivi.

Una delle costruzioni situate in alto in origine fu adibita a magazzino, mai troppo utilizzata, per anni grigia e blindata. Una catapecchia dalle finestre invase di ruggine e vento.

A guardarla adesso, invece, appariva graziosa e gentile, dipinta color del grano.
Le finestre socchiuse, azzurre, odorose di vernice fresca.

* * *

Il nuovo inquilino è un uomo taciturno.
Muto ha fatto il suo ingresso nel paesino in una sera di pioggia tiepida e silenziosa; muto lo ha attraversato; muto si è recato sicuro verso la catapecchia abbandonata; muto l'ha sistemata in brevissimo tempo, senza chiedere aiuto ad una sola anima.

Poi, ha iniziato a vendere parole.

Proprio così, parole.
Sacchetti e confezioni di parole, per ogni esigenza.

La gente del paese, inizialmente, fu in preda allo stupore, esattamente come te adesso.
Se hai capito bene la natura del nostro paesino piccolissimo, potrai immaginare il chiacchiericcio feroce che insorse al suo arrivo; per i primi mesi non si fece altro che (s)parlare dell'uomo paroliere.
Ma lui sembrava ben conoscere le dinamiche che caratterizzano il chiacchiericcio dei paesi piccolissimi: li ignorò e si calmarono.
Pian piano riuscirono ad abituarsi all'idea di avere come vicino di casa un uomo che per guadagnarsi da vivere, vendeva parole.

(continua...)